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Nel Varesotto la percentuale di donne che lavora è pari al 57%. Un dato ben più alto sia della media italiana (49%), sia di quella lombarda (53%). Il problema, però, è che siamo ben lontani dall’asticella europea che supera la soglia del 67%. Ma è soprattutto la differenza con lo stesso dato maschile sul territorio (74%) a preoccupare. Il gender gap è ancora troppo alto e negli ultimi anni non abbiamo fatto grandi passi avanti

Il lavoro, la casa, i figli, a volte i genitori anziani, gli orari da rispettare, gli appuntamenti da gestire. Al di là delle apparenze e di parole fin troppo abusate, quando si parla di conciliazione tra vita privata e lavoro non si può farne una questione di stereotipi e frasi fatte. Alzi la mano la donna lavoratrice e con carichi di cura che non ha pensato almeno una volta nella sua vita: chi me lo fa fare? C’è chi resiste, chi ci prova, chi trova soluzioni e chi getta la spugna ed “esce dal gioco”. Una sconfitta personale. Forse sì, ma anche una perdita per tutti. Le stime di Banca d’Italia dicono che se nel nostro Paese la percentuale di donne al lavoro arrivasse al 60%, il Pil crescerebbe di 7 punti percentuali. In soldoni: tante più donne escono dalla partita, tanto più la ricchezza si riduce. Sta dentro questa considerazione il passaggio dalla questione personale ad un livello più alto che merita spazio e attenzione. 
Cosa succede nel nostro territorio?  A che punto è il lavoro delle donne e quali sguardi possiamo dare al futuro? 

La fotografia: cosa dicono i dati


Partiamo da quello che fotografano i dati Istat elaborati dall’Ufficio statistica della Camera di Commercio di Varese: il tasso di occupazione femminile, fra il 2007 e il 2020 si è sempre collocato al di sopra della media italiana (49%) e in linea con quella lombarda (53%). Un dato che mette distanza tra noi e alcuni territori del centro e sud Italia e che sembra riflettere operosità e ricchezza del nostro tessuto. Ma che impallidisce di fronte al dato europeo dove l’asticella media in fatto di donne al lavoro è al 67,4%. Il quadro non è così roseo poi se si prende in considerazione il punto di partenza e quello di arrivo di questa serie storica, dal momento che in Italia le donne attivamente al lavoro sono cresciute in questo lasso di tempo sia a livello nazionale, sia a livello lombardo, mentre nel Varesotto si è invece registrata una leggera flessione. In altre parole, possiamo immaginare un grafico in cui una linea rosa attraversa quasi tre lustri tra alti e bassi, ma tornando poi all’arrivo leggermente sotto il punto di partenza. Un aereo che non prende quota, che cerca di spiccare il volo, ma alla fine si posa nuovamente sulla pista.  

Ancora meno positivo è il dato sul gender gap, ovvero la distanza tra i livelli occupazionali maschili e femminili: un gradino che rimane elevato e questa distanza è cresciuta proprio nel 2020 a causa della pandemia, arrivando a 17 punti percentuali, facendo registrare il 74% il tasso di occupazione maschile contro il 57% femminile. Percentuali che ci dicono solo una cosa: il potenziale è ancora alto e la partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne ha dei margini di crescita espressi anche da quel 5,9% di tasso di disoccupazione femminile, che racchiude le donne che un lavoro lo stanno attivamente cercando. Ma a far aumentare la distanza tra uomini e donne al lavoro è stata la perdita di occupazione femminile nel 2020. Nell’anno della pandemia il numero delle donne occupate nella nostra provincia è calato da 171mila a 162mila, con una perdita di oltre 8mila posti di lavoro. Dati che fanno riflettere, ma che ancora non permettono di tracciare un bilancio definitivo dell’onda lunga del Covid sull’occupazione e in particolare su quella in rosa. A corroborare questi numeri, arrivano poi anche i dati di una indagine Inps che ha fotografato il numero dei beneficiari dell’indennità di disoccupazione nel 2020: il dato è risultato in crescita (+4,5%) rispetto all’anno precedente e per il 57% dei casi i percettori dell’assegno sono donne. 

Tra part time, smart working e nuove regole 


“I numeri e le percentuali che ci aiuteranno a capire veramente la situazione saranno quelli del 2021. Il primo anno della pandemia è stato condizionato dal blocco dei licenziamenti, dall’utilizzo massiccio della cassa integrazione e dallo smart working deregolamentato: tutti strumenti che hanno in una certa misura frenato la perdita di posti di lavoro che avrebbe potuto essere anche maggiore”: così commenta Anna Danesi, Consigliera di Parità della Provincia di Varese, un’Istituzione che ha lo sguardo lungo su mercato del lavoro femminile, parità di genere e politiche per la conciliazione. Sul suo tavolo arrivano i dati, ma anche tutte le pratiche che riguardano le cessazioni di rapporti di lavoro da parte di donne e le controversie che hanno a che fare con il tema della conciliazione. “Ancora oggi la stragrande maggioranza dei casi di cui ci occupiamo – dice Danesi – riguardano il tema degli orari e del part-time: le aziende fanno molta fatica a concedere l’orario ridotto che, per molte donne con figli piccoli, rappresenta l’unica via per continuare a lavorare. Troppo spesso la via d’uscita è quella di dimettersi nel primo anno di vita del bambino, vedendosi riconosciuta l’indennità (Naspi) per 24 mesi: si tratta di una misura volta a garantire un reddito alle neomamme che lasciano il lavoro, ma finisce per essere vista come una soluzione più semplice ed economicamente più sostenibile rispetto al rientro a tempo pieno con l’impiego di asili e baby-sitter”. 

Le politiche attuate fino ad ora, hanno preso la direzione del sostegno al reddito, piuttosto che promuovere il mantenimento del posto di lavoro incentivando per esempio l’utilizzo del part time, magari con sgravi contributivi per le aziende che applicano queste forme contrattuali.  Le cose potrebbero cambiare per effetto di una forte spinta e attenzione al tema della partecipazione femminile al mercato del lavoro, sempre più vista come un obiettivo da raggiungere nel breve periodo. “In questo momento storico – dice la Danesi – c’è una grande attenzione anche da parte non solo del legislatore italiano, ma anche dell’Europa al tema della conciliazione e delle politiche di genere che ha dato luogo a diverse novità sia per le modifiche intervenute nel Codice per le Pari Opportunità, sia per quanto contenuto nel Next Generation Eu e nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”. Tutti tasselli che si vanno componendo e che permettono di guardare al futuro come a un periodo di cambiamenti. Per provare a invertire la rotta sul ritardo femminile nella partecipazione al mercato del lavoro in Italia e a ridurre le differenze sul piano retributivo e di crescita professionale tra i due generi, sono state introdotte due novità: la “certificazione di parità” - che mira a incentivare le imprese ad adottare policy adeguate a ridurre il divario di genere - e i “rapporti sul personale”, ovvero strumenti di monitoraggio su diversi dati compresi quelli retributivi divisi per genere - sono stati estesi anche alle imprese con più di 50 dipendenti (prima rivolto solo alle aziende con più di 100 dipendenti). 

“Si tratta di misure i cui effetti si vedranno nel tempo – dice la Danesi -. Per la certificazione di parità, in particolare, dobbiamo attendere i decreti attuativi, ma sicuramente sono tutti passaggi necessari e importanti”. Sulla stessa lunghezza d’onda si trova il pnrr dove la questione della parità di genere è stata volutamente declinata dal nostro legislatore in modo trasversale in tutte e sei le missioni in cui il piano è articolato: con l’obiettivo di aumentare del 4% l’occupazione femminile entro il 2026 sono stanziate risorse per circa 38,5 miliardi di euro. Nel concreto si parla di piano asili nido, di servizi educativi all’infanzia, ma anche di potenziamento e ammodernamento dell’offerta turistica e culturale con l’obiettivo di avere un impatto occupazionale su settori a forte presenza femminile come quello alberghiero, della ristorazione, delle attività culturali. “Tutti passi importanti – conclude la Danesi -, a patto che non si dimentichi che la conciliazione non può essere vista come un fatto privato, ma che è un tema che riguarda la collettività”.  

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