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Da una parte si tassano gli imballaggi in plastica per alimenti, dall’altra, però, è la stessa legge a vietare l’uso di materiali alternativi, a tutela della salute dei consumatori. Questa è solo una delle tante contraddizioni della nuova imposta che colpirà molte aziende del Varesotto, leader internazionali del settore

‘‘Una tassa fuori dalla realtà. Molto populista, che poco potrà incidere sull’impatto ambientale della plastica e che non tiene conto della normativa vigente”. È questa la visione della Plastic Tax dal punto di osservazione di Giampiero Perego, Presidente della MPG – Manifattura Plastica SpA, una delle tante imprese che fanno di quella varesina la prima provincia in Italia per numero di addetti nell’industria che produce articoli in materie plastiche. “Non saprei come altro definirla”, racconta il titolare Giampiero Perego che non ha mezzi termini nel parlare di una politica italiana “che spesso vive fuori dal mondo”. Il perché è presto detto: “Giustamente la versione finale della Plastic Tax ha esentato dalla nuova imposta gli imballaggi dei medicinali, perché solo la plastica vergine può essere utilizzata per legge come packaging per questo tipo di prodotti”. Peccato, però, denuncia Perego, che ciò valga anche per gli imballaggi alimentari “che sempre per legge debbono essere prodotti con plastica vergine, non ottenuta da riciclo post consumo, proprio per tutelare la salute dei consumatori”. Quindi, da una parte si introduce un’imposta con l’obiettivo di agevolare l’introduzione di nuovi materiali più green sul mercato, dall’altra, però, la normativa blocca questa possibilità. “Per questo dico che la politica vive su un altro pianeta o quanto meno ignora quale siano le conseguenze delle proprie decisioni”. La mano destra non sa cosa fa la sinistra e le imposte vengono introdotte senza considerare il contesto. In mezzo rimangono le imprese come la MPG “utilizzate per fare cassa, con il pretesto di colpire un prodotto, quello della plastica, impopolare più per ignoranza che per dati oggettivi”, commenta ancora Perego. Tutto questo, però, “non fermerà il processo di sviluppo della MPG, stiamo crescendo e continueremo a farlo puntando sugli investimenti”.

Il 90% della produzione della MPG consiste in imballaggi per alimenti che finiscono sulle nostre tavole. All’interno delle sue scatole in plastica vengono conservati gelati e prodotti caseari come quelli Motta, Cremeria, Valsoia, Igor. Solo per citare alcuni tra i brand più famosi riforniti dalla MPG che inoltre è fornitore di colossi multinazionali quali Unilever e Kraft-Heinz. Sono realtà industriali campioni del made in Italy come queste, leader di mercato a livello europeo pur essendo una Pmi da una novantina di dipendenti, che la Plastic Tax prende di mira. La nuova tassa, però, non cambierà il percorso green della MPG: “La nostra azienda – spiega Perego – sta portando e porterà avanti investimenti importanti per poter trasformare materie plastiche “green” quali il polipropilene ottenuto da biomasse, ossia da rifiuti vegetali o da oli alimentari esausti”. Altro fronte della ricerca e sviluppo sul quale è impegnata la MPG è quello della plastica vergine proveniente da post consumo e riportata, se così di può dire, ai suoi componenti originali. “La realtà - continua Perego – è che a rendere green l’economia possono essere solo le imprese con i propri investimenti. Siamo convinti che sia nostro primario interesse difendere l’ambiente, ma non lo si fa con la demagogia. A inquinare non è la plastica, ma l’uso scorretto e la maleducazione di chi non la ricicla”. Un danno per le stesse imprese e per l’economia globale. “Ogni grammo di plastica che viene buttato senza essere riciclato è, per imprese come la nostra, ricchezza che viene persa”.

Giampiero Perego, MPG – Manifattura Plastica SpA: “La Plastic Tax è un’imposta fuori dalla realtà. Sono imprese come la nostra, con i propri investimenti, a poter dar vita ad un’economia green e sostenibile”

Una frase che si ritaglia alla perfezione su un’altra realtà industriale del territorio: la Laborplast di Busto Arsizio che produce da una parte il compound che poi viene utilizzato da altre imprese per produrre i tubi, i raccordi e gli zoccolini in plastica per l’edilizia; dall’altra le cosiddette anime, ossia i tubi, sempre in plastica, che poi altre aziende utilizzano per avvolgere film e imballaggi flessibili utilizzati dall’industria alimentare e delle bevande per avvolgere le bottiglie in plastica che poi mettiamo nel carrello della spesa in confezioni da 6 o per imballare i cibi a lunga conservazione. “La nostra azienda – spiega Mattia Pariani, R&D e Process Engineer di Laborplast – non è colpita direttamente dalla Plastic Tax, ma lo sono i nostri clienti che producono packaging per l’industria alimentare”. Ciò, però, che non va giù a Pariani è la fama con cui ormai l’opinione pubblica, “con troppa sufficienza”, ha bollato la plastica e la sua industria. “Tutti i nostri prodotti, ad esempio, vengono realizzati fin dagli anni ‘80 con PVC rigenerato”. Ossia da plastica riciclata e recuperata pre o post consumo. O da scarti industriali o da materiale edile arrivato a fine vita. “Aziende come la Laborplast – ci tiene a spiegare Mattia Pariani – fanno economia circolare da più di 30 anni, da quando questa stessa espressione ancora non esisteva”. Come dire: se oggi è possibile parlare di economia circolare o di simbiosi industriale bisogna guardare a quelle imprese del settore che questi slogan e intenti li hanno trasformati in realtà decenni fa, senza tanta retorica, ma alla prova dei fatti e della sostenibilità. Sia ambientale, sia economica. Proprio per questo a Pariani non va giù che la plastica sia considerata l’emblema di tutti i mali del pianeta, tanto da essersi speso in una lotta contro i luoghi comuni anche attraverso i propri canali social personali: “L’impatto sull’ambiente di un prodotto deve essere calcolato sull’intero ciclo di vita del materiale di cui è fatto. Ci scandalizziamo giustamente per le isole di plastica negli oceani perché hanno un impatto visivo sulle nostre coscienze, ma siamo sicuri che vetro e carta siano meno inquinanti?” Pariani fa degli esempi concreti: “Carta e vetro vengono ottenuti ad alte temperature e dunque con cicli produttivi più impattanti in termini di anidride carbonica rispetto all’industria plastica. Se buttiamo la carta nel mare, è vero, si scioglie, ma le colle e l’inchiostro utilizzati per fare per esempio imballaggi non spariscono. Forse non li vediamo, ma non per questo non inquinano”. Insomma, bisogna stare attenti alle alternative alla plastica: “Sai quel che lasci, ma non sai quel che trovi. Il PVC della Laborplast può per esempio essere riciclato all’infinito. Noi siamo i primi ad avere un interesse nel suo recupero a vantaggio dell’ambiente. Nel mio settore chi cerca di fare concorrenza ai nostri prodotti attraverso la carta, ad esempio, lo fa a suon di colle. Non mi sembra una svolta più ecologica”.  

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