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Ricadute geopolitiche ed economiche inevitabili, anche in Italia e in Europa, dall’imponente progetto cinese, come spiega in questa intervista il professor Rodolfo Helg, docente di Economia Internazionale alla LIUC – Università Cattaneo di Castellanza

Il tema è di quelli controversi: la Belt and Road Initiative (Bri), ribattezza da alcuni “la nuova Via della Seta”, sta creando non poche discussioni e spaccature a livello geopolitico. In poche parole, questo è un progetto strategico per la Cina, varato nel 2013, nell’ottica del miglioramento dei collegamenti commerciali con i Paesi dell’Europa e dell’Asia: sono previsti ingenti investimenti cinesi, si parla di oltre 1.000 miliardi di dollari, per la creazione e il rafforzamento di 6 corridoi commerciali, sia terrestri che marittimi, che coinvolgono 70 Paesi e circa il 60% della popolazione mondiale. Gli Usa sono decisamente contrari al disegno del presidente cinese Xi Jinping, considerato dal loro punto di vista egemonico e neocolonialista. L’Ue è tiepida e storce il naso di fronte a un Paese che ha bassi livelli di tutela sia sul lavoro che sull’ambiente e teme l’ingerenza cinese nei piani di sviluppo infrastrutturale già in essere nell’Unione. Intanto l’Italia, la scorsa primavera, ha firmato un memorandum con la Cina; un accordo che, seppur non vincolante, ha un suo peso. In questo contesto, i fatti hanno superato il dibattito e le firme: già dal 2011 a Duisburg, in Germania, arrivano i convogli commerciali cinesi. Ingenti investimenti di Pechino sono già in essere nei porti olandesi, come anche nel Mediterraneo, lo scalo marittimo del Pireo è stato acquistato da una società cinese. E per arrivare proprio a casa nostra, dallo scalo Hupac di Busto Arsizio il 19 luglio scorso è partito il primo convoglio merci che in 18 giorni arriva in Cina. 

Della Bri parliamo con il professor Rodolfo Helg, docente di Economia Internazionale alla LIUC – Università Cattaneo: al netto delle questioni più squisitamente geopolitiche, qual è al momento la situazione, a livello di interscambio commerciale, con la Cina?
Se guardiamo i dati pubblicati dall’Ice, emerge che l’Italia ha una quota abbastanza esigua di importazioni in Cina, ossia i prodotti italiani pesano l’1% di quello che entra nel mercato cinese. La Germania pesa per il 6,1%, Francia e Gran Bretagna si attestano sull’1,4% ovvero poco più dell’Italia. Gli Usa, da soli, valgono l’8,7%. Se si guarda alle esportazioni dalla Cina il 20% dell’export cinese va negli Stati Uniti, in Germania siamo al 4,5%, in Francia al 2,2%, mentre l’Italia rappresenta solo l’1,1% delle esportazioni cinesi. Indubbiamente però sarebbe opportuno parlare delle dimensioni di interscambio con l’Ue dal momento che con l’integrazione europea la politica commerciale è di competenza di Bruxelles e non dei singoli Stati. In questo senso si comprende che le cifre di cui sopra assumono altro peso: l’Ue è un mercato di riferimento per la Cina tanto quanto, se non più, del mercato statunitense. 

Il progetto in sé prevede lo sviluppo di maggiori collegamenti sia via terra che via mare, il che si traduce in un impatto sui costi di trasporto e anche in una riduzione dei tempi di trasporto

Questo progetto, restando al dato economico commerciale, potrebbe portare dei vantaggi alle imprese italiane?
Teniamo conto che il progetto in sé prevede lo sviluppo di maggiori collegamenti sia via terra che via mare, il che si traduce in un impatto sui costi di trasporto e anche in una riduzione dei tempi di trasporto: le stime dicono che scenderebbe del 3 o 4% con una conseguente riduzione del 3-3,5% dei costi. L’impatto dunque potrebbe essere quello di far rivedere le scelte di alcune imprese rispetto alla penetrazione del mercato cinese: ci possono essere aziende che a questo punto troveranno meno conveniente la delocalizzazione, anche per un aumento del costo del lavoro in Cina. Altre imprese potranno, considerando i minori costi di trasporto, valutare di intrattenere rapporti commerciali con la Cina che in passato non erano economicamente vantaggiosi. 

Sempre restando al dato economico commerciale, quali potrebbero essere invece gli svantaggi? 
In termini di ricadute che possono essere considerate negative, possiamo dire che le imprese cinesi saranno più facilitate nel portare qui i loro prodotti e questo significherà maggiore concorrenza soprattutto per le aziende lombarde: qui si concentrano già oggi le maggiori importazioni di prodotti cinesi che riguardano i settori della meccanica, dell’elettronica e del tessile abbigliamento. 

Non possiamo separare l’aspetto del rapporto economico commerciale con la Cina, da tutto quello che ciò comporta per l’Italia sullo scacchiere globale e nel contesto europeo. Di fronte a questa nuova fase della globalizzazione ha senso, per i singoli Paesi europei, muoversi da soli con il colosso cinese? 
Assolutamente no, anche se l’Italia non è il primo Paese dell’Unione Europea ad aver firmato un accordo con la Cina: ricordiamo che si tratta comunque di un memorandum non vincolante il quale contiene un impegno di investimenti cinesi su 4 porti italiani per renderli più moderni e competitivi. Non va dimenticato però che l’Italia è stato il primo Paese tra quelli del G7 ad aver formalizzato un simile accordo. Questo è stato un segnale molto forte che la Cina usa a suo vantaggio contro l’accusa di comportarsi da potenza neocolonialista. Pechino sta finanziando pesantemente lo sviluppo di molti Paesi che sono attraversati dai nuovi corridoi commerciali, rendendo di fatto quei Paesi suoi debitori e quindi ricattabili. L’Italia per la Cina in questo momento rappresenta la prova che il suo non è un comportamento neocolonialista, ma sta trattando anche con Paesi del G7. In verità correre da soli, per il nostro Paese, non è opportuno proprio perché si rischia di essere ricattabili. Dovremmo riportare il tema al centro dell’Unione Europea e giocare la sfida sia dal punto di vista geopolitico, che degli aspetti economici e commerciali che sono in gioco. Mi riferisco anche a tutti quei Paesi dell’Asia centrale che, grazie a questa operazione, saranno maggiormente collegati con l’Europa e che possono diventare dei mercati di sbocco interessanti per le imprese europee. Ci sono Paesi che proprio grazie alla Belt and Road Initiative e ai suoi massicci investimenti conosceranno un forte sviluppo: la vera sfida per le nostre aziende è essere pronte ad usare i nuovi collegamenti per arrivare a quei mercati. 

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