Le imprese sono di fronte ad un ripensamento delle lunghe o addirittura lunghissime supply chain che hanno contraddistinto l’avvento della globalizzazione. Il modello alternativo, però, al momento, non è quello del reshoring spinto e incondizionato. Le parole d’ordine sono semmai elasticità e ridondanza dei fornitori

Il 2020, l’anno della pandemia, verrà ricordato oltre che per il carico di dolore anche per le importanti discontinuità introdotte nel modello di sviluppo economico. Tra queste una delle più significative è stata senz’altro l’interruzione forzata delle lunghe catene del valore internazionali. Il blocco delle forniture di componenti e l’impossibilità di muoversi delle persone hanno messo temporaneamente in crisi un consolidato modello di specializzazione internazionale delle produzioni. Ed ora che, per effetto dei vaccini, ci si è avviati verso una diversa normalità, rimane pur sempre il retropensiero che qualcosa nel modello di specializzazione internazionale portato all’estremo possa di nuovo non funzionare.  Da qui le sempre più numerose riflessioni sul tema delle filiere e del reshoring che si affacciano nelle discussioni pubbliche. Il reshoring viene spesso descritto come la facile soluzione al tema di mantenere un maggior controllo sugli approvvigionamenti. Almeno su quelli critici. Alcuni Stati si stanno già muovendo in questa direzione, si pensi alla Francia ed alle politiche del Presidente Macron per incentivare il ritorno in patria delle produzioni considerate strategiche. Si pensi ben prima alle politiche di reshoring avviate già da Obama e riprese con ancor più vigore da Trump sotto l’egida dell’America First. 

Insomma, l’atteggiamento del “ritirarsi”, del ritorno alla base con lo scopo di rafforzare l’economia del territorio di origine sta facendo capolino. E con esso si fa largo anche un ripensamento del modello di iper-globalizzazione degli ultimi decenni. Ma dietro il reshoring c’è un più complesso sistema che va osservato: quello dell’articolazione delle filiere. Veniamo da anni di filiere lunghe, sempre più lunghe e iper-specializzate. Filiere che per esistere e lavorare perfettamente hanno bisogno di alcune precondizioni. La prima è un fattore micro-economico e riguarda il modello di organizzazione dell’impresa. Le filiere lunghe si appoggiano ad un modello d’impresa snella che cresce sull’esterno. Un’impresa articolata, che non internalizza tutti i processi, ma divide e distribuisce fasi produttive spalmandole su una platea di fornitori specializzati ottimizzandole.  Secondo un modello di impresa “snella e connessa”.

La seconda condizione riguarda il fattore “ambientale”. Un modello di impresa così articolato richiede il prefetto funzionamento della globalizzazione. Così la filiera si ottimizza se è possibile andare a ricercare competenze e fornitori laddove sono disponibili, non importa quanto lontano nel pianeta. Secondo un modello del “mondo senza barriere”.

La terza condizione è che la rete degli scambi funzioni dal punto di vista logistico. Nulla si deve inceppare e le merci ed i semilavorati devono continuamente poter circolare con una perfetta sincronizzazione che permetta lo sviluppo del just in time. 
Il combinato disposto di questi fattori ha consentito di costruire nel tempo filiere lunghissime ed ottimizzate dal punto di vista dei tempi di delivery e dei costi. Ma la pandemia è entrata a gamba tesa. Il modello di crescita delle imprese è rimasto lo stesso (non si modifica in un anno), ma la globalizzazione ha mostrato le sue fragilità e la logistica è stata interrotta.

Nell’anno del Covid-19 si è avuta evidenza del lungo fenomeno della regionalizzazione su base continentale e degli scambi. La gara all’approvvigionamento dei vaccini ha funzionato da cartina di tornasole in cui si sono fatti avanti interessi sempre meno globali. 
Del continente Nordamericano si è già detto, la Brexit, che nei fatti è iniziata proprio con la pandemia, parla da sola. Ma più di tutti peserà il “Regional Comprehensive Economic Partnership” (RCEP), l’accordo economico-commerciale tra i 10 Paesi del Sud-Est asiatico dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, firmato il 15 novembre dopo otto anni di negoziati. L’accordo storico segna l’avvio del blocco commerciale e di investimento più grande al mondo e sarà in grado di rivoluzionare, come sottolinea l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), la geopolitica della regione e i rapporti tra gli Stati di quella regione.  L’Europa in questo quadro ha riacquistato una maggior coesione interna, mantenendo un atteggiamento meno protettivo degli scambi, rispetto agli blocchi continentali. 

Nell’ anno del Covid-19 si è avuta evidenza del lungo fenomeno della regionalizzazione su base continentale e degli scambi. La gara dapprima alla realizzazione e poi agli approvvigionamenti dei vaccini ha funzionato da cartina di tornasole in cui si sono fatti avanti interessi sempre meno globali

Questo, in sintesi, lo scenario mutato con cui devono fare i conti le imprese globalizzate e le catene del valore. Che con la ripresa economica hanno visto ripartire la domanda internazionale, ma stanno sperimentando tutte le difficoltà di reperimento delle materie prime e della componentistica. La grande domanda è se queste scosse degli approvvigionamenti siano transitorie e destinate ad assestarsi o se i movimenti ondulatori spingano a trovare nuovi equilibri di produzione in via definitiva all’interno delle value chain.
Guardando i primi numeri  elaborati nel “Rapporto Indagine internazionalizzazione 2021: gli effetti delle pandemia negli scambi globali delle imprese lombarde”, realizzato da Confindustria Lombardia su circa 1.200 imprese che hanno rapporti con l’estero (export, import, franchising, produzione), il Covid sta invitando le aziende ad un potenziale ripensamento delle supply chain in futuro: infatti se è vero che il 67% delle imprese rispondenti ha mantenuto invariati composizione e numero dei propri fornitori nel 2020, ben il 25% delle aziende lombarde dell’indagine ha intenzione di modificarli nel prossimo anno. 

Lo spaccato dell’indagine per le imprese di Varese realizzato dall’Ufficio Studi Univa mette in evidenza una minor propensione a rivedere i rapporti lungo le catene internazionali di fornitura: il 77,4% dichiara di non aver cambiato i fornitori, né di volerlo fare nel prossimo anno.  Appena il 5,6% ha sostituito i fornitori in via temporanea (1,6%) o definitiva (4,0%). Nessuno ha internalizzato la produzione ed il rimanente 17% sta pensando a modificare la composizione dei fornitori nel prossimo anno. 
Tutto ciò si inquadra anche in una sostanziale tenuta delle quote rispetto ai competitors all’estero delle imprese varesine rispondenti con circa il 67% che dichiara una tenuta rispetto al potenziale di mercato, il 22% che ha subito una perdita temporanea, lo 0,8% che ha subito una perdita definitiva di almeno un mercato di esportazione e quasi l’11% che ha superato il potenziale acquisendo quote.

Se poi si analizza la percentuale di chi ha riportato la produzione in Italia, il dato si abbassa significativamente: meno del 2% del totale delle imprese intervistate ha fatto reshoring. Come è naturale che sia, vuoi perché il fenomeno del reshoring si deve misurare nel tempo (sono decisioni lunghe e organizzativamente complicate), vuoi perché se si è componentisti intermedi le decisioni produttive dipendono anche dalle decisioni dei prime contractor, vuoi perché volenti o nolenti il baricentro economico e la domanda mondiale si stanno sempre più spostando verso l’Asia. È lì il mercato dei prossimi anni. 

In buona sostanza siamo di fronte sicuramente ad un ripensamento del modello delle catene lunghe e lunghissime e perfettamente ottimizzate che hanno caratterizzato il periodo della iper-globalizzazione. Le imprese però non stanno ancora pensando, rimanendo invariate le condizioni di contesto, ad un modello di catene corte o cortissime (reshoring incondizionato), quanto piuttosto a catene elastiche che sono disposte a perdere qualcosa in ottimizzazione per guadagnare in ridondanza di fornitura, aprendo la rete anche a fornitori di prossimità capaci di garantire la continuità produttiva in caso di shock e, magari, qualche aiuto a ridisegnarsi in termini  di digitalizzazione e sostenibilità. Il nuovo trade-off è questo. Hic Sunt Leones.  

 

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