Anche nella West Coast degli Stati Uniti è tempo di riflettere su che cosa il ritorno alla normalità lascerà in termini di smart working post pandemia. O forse sarebbe meglio chiamarlo remote working, come preferiscono definirlo gli americani. Si va dalla “flexible week” di Amazon, Microsoft e IBM, al lavoro agile al 100% di Twitter. Con Google che potrebbe puntare su una settimana di quattro giorni in presenza e uno a casa. Ma sullo sfondo si affaccia una nuova realtà, quella delle “liquid companies”

Negli anni scorsi peregrinando nella Silicon Valley gli imprenditori varesini e lombardi che hanno partecipato alle Tech Mission dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese, organizzate
per andare alla scoperta delle aree tecnologicamente più avanzate dell’economia mondiale, sono stati affascinati dalla visione delle big high tech company che si susseguivano senza soluzione di continuità sulla US101, forse la più famosa (ma anche la più trafficata) autostrada del pianeta. Un panorama di edifici così diversi dai nostri, letteralmente immersi fra piante grandiose e rigorosamente con un solo enorme piano terra circondato da un parcheggio sconfinato. Dentro, accanto ai laboratori e agli uffici, tutto quello che poteva rendere piacevole la vita, ad esempio un bar ogni 50 metri assolutamente gratuito e le mense, veri e propri ristoranti di livello pronti a servire menù internazionali ad ogni ora del giorno e della notte. Inevitabile per molti dipendenti americani restare al lavoro fino a sera, coinvolti convintamente nei “destini” della propria azienda. Guardando bene però questi edifici erano alquanto precari e decisamente brutti; sembrava che bastasse un po’ di vento a farli volar via. Ed ecco che negli ultimi anni molte importanti aziende hanno fatto grossi investimenti ingaggiando i migliori architetti a livello mondiale per realizzare strutture molto più piacevoli, spesso avveniristiche, in grado di dare un senso di solidità, nel contempo aggiungendo ulteriori servizi per i dipendenti. Basti pensare a GooglePlex, ad Apple Park e al nuovo campus di Facebook a Menlo Park: tutti progettati dal famoso Frank Gehry. A un certo punto però anche questo incantesimo si è rotto: ricercatori e impiegati hanno smesso di voler stare nella Valle; non si sono
più sentiti, come in passato, “pionieri delle alte tecnologie” al cui sviluppo dedicare tutto sé stessi. È subentrata l’ambizione per una qualità della vita diversa, magari a San Francisco.
Le aziende sono subito corse ai ripari e, senza batter ciglio, hanno aperto bellissime strutture in città: un esempio per tutte, la fantastica SalesForce Tower, uno dei più alti grattacieli al mondo. Google, Twitter, Facebook, Uber hanno così rinnovato il tessuto urbano, in termini sia di sicurezza, sia di vivibilità. Poi con la pandemia il processo si è arrestato e si è cominciato a lavorare da casa.
Tutti in remote working (negli Usa il termine smart working non piace). Ora, però, con il lento ritorno alla normalità, anche negli States, è il tempo di fare un bilancio e capire cosa rimarrà del lavoro a distanza. Con questo articolo Varesefocus prova a scattare una fotografia con l’aiuto di Maurizio Gianola, manager e imprenditore varesino con una straordinaria lunghissima esperienza di lavoro nella Silicon Valley e tra i protagonisti della TechMission di Univa di gennaio di quest’anno, inevitabilmente svoltasi in maniera virtuale viste le limitazioni nei viaggi.
Il dibattito è aperto soprattutto su un punto: rientrare nel posto di lavoro o continuare in remoto? Come previsto, nelle aziende della Bay Area la tendenza è verso una modalità ibrida, la cosiddetta flexible work week, ovvero 3 giorni in ufficio, normalmente martedì, mercoledì e giovedì, rigorosamente con tutti presenti, e due a casa. Ma non ovunque, come è il caso delle aziende di servizi finanziari dove tutti devono invece rientrare in sede. La maggioranza delle imprese di high tech prevedeva l’avvio della flexible week da fine settembre (Amazon, Microsoft, IBM). Apple ha deciso qualcosa di simile ma si è dovuta confrontare con una forte rivolta interna perché i team richiedono di lasciare a loro le scelte su come organizzare il flexible work. SalesForce lo farà da fine anno, mentre Twitter ha detto che i dipendenti continueranno a lavorare da casa per sempre; come evidentemente farà anche Slack. Tempistiche, comunque, da rivedere a causa dell’andamento della pandemia nel mese di agosto, che farà slittare l’avvio delle flexible week. Pochi problemi, invece, per Oracle e HP che, quando, prima del Covid, hanno trasferito i loro headquarter ad Austin, già non avevano richiesto il trasferimento di tutti i dipendenti dando la possibilità di restare a lavorare nelle loro case a migliaia di chilometri di distanza.
Un vero “caso di scuola” è Google che pure prevede il rientro a fine settembre, ma in modo molto scaglionato, con la consegna che in ufficio si fa tutto il lavoro di interazione, attività sociali, meeting;
ma non sedersi a lavorare alla propria scrivania. Con una novità: Google sta facendo un gigantesco investimento in nuovi uffici e data center molto prestigiosi non solo in Silicon Valley, ma in tutti gli Usa facendo intravedere a lungo termine (per costruire e rendere operativi questi campus ci vogliono almeno 5 anni) il ritorno totale in ufficio. Tenendo presente che già prima del Covid la maggioranza
del personale Google lavorava a casa un giorno alla settimana, si può prevedere che a regime si affermerà un flexible work 4/1, rafforzando ulteriormente il modello immersive live experience, con ulteriori bar e mense stellate, e poi ancora: nuovi campi per ogni tipo di sport, teatri, lavanderie, asili nido. Poiché l’esempio di Google verrà seguito da molti, si intravede un ulteriore cambio di paradigma nel processo di ridefinizione del posto di lavoro che sembra tornare a privilegiare grandi e innovative sedi fuori dalle città. Anche perché in questi mesi tantissimi hanno abbandonato i piccoli, scomodi e costosi appartamenti in San Francisco per trasferirsi in casette singole con giardino nella Valle, senza problemi di traffico e di parcheggio, oppure anche molto più lontano. La stessa cosa è avvenuta a New York, a Seattle e in altre metropoli americane. Ma la cosa più interessante che si nota oggi è il fenomeno, per ora limitato alle piccole aziende (piccole con occhi americani, ma medie
realtà per gli standard italiani) delle cosiddette liquid companies. Queste invece di avere una sede con l’headquarter e altri distaccamenti periferici, sono completamente distribuite nelle case dei dipendenti. Hanno un indirizzo con la sede sociale, magari presso un avvocato, e tutti lavorano in remoto utilizzando esclusivamente strumenti come Zoom e Slack. L’azienda si struttura in modo assolutamente diverso: se necessita un particolare talento i processi aziendali remoti permettono di ricercarlo e ingaggiarlo ovunque e con molti vantaggi: riduzione dei costi di infrastrutture, aumento della base dei talenti su cui si può far conto, grande flessibilità nel lavoro. Dall’altra parte ci sono anche nelle liquid companies problemi di psicologia del lavoro e coinvolgimento a cui si fa fronte con iniziative di condivisione come i company meeting trimestrali nei quali tutte le persone convergono in un luogo, che può essere ovunque, mediamente per una settimana. Qui si conoscono, lavorano insieme, hanno momenti di socializzazione, acquistano fiducia reciproca e poi rientrano a casa loro. Almeno un meeting all’anno è per tutta l’azienda, gli altri possono essere anche per gruppo di lavoro. Essenziali però in questo schema sono la definizione di processi aziendali molto precisi e assolutamente vincolanti, e la presenza di tutor o mentor a disposizione dei nuovi assunti per facilitare il processo di onboarding. È poi molto importante che la condivisione dell’informazione sia estremamente precisa e ad ogni livello aziendale.
È prematuro dire se questo è il futuro della Valle ma, mentre per le aziende più grandi il modello ibrido sta diventando la norma, le aziende piccole soprattutto del settore high tech guardano con molto interesse a questo approccio che peraltro non è nuovissimo. Significativo anche che due fra i pionieri di questa tendenza siano italiani: Marco Zappacosta, cofondatore di Thumbtack e Diego Ventura, Ceo di noHold. Qualcosa di analogo sta avvenendo anche in UK come ben descrive un recente articolo del Guardian di fine giugno, dal quale è emerso come il problema della creatività in remoto rimanga comunque una questione aperta. In conclusione, proprio una intelligente sintesi fra digital transformation, remote working e nuove tecnologie per la comunicazione e l’interazione sarà la combinazione vincente in Silicon Valley così come in altre parti del mondo; purché non venga colta solo come una questione tecnologica ma in una più profonda accezione, cioè di rinnovamento della
filosofia aziendale.



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