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Il vantaggio competitivo sul fronte della sostenibilità. Il gap da colmare nella comunicazione digitale delle imprese. L’obiettivo di attrarre nelle aziende una nuova generazione di lavoratori per garantire il turn over. Intervista al Presidente di Sistema Moda Italia, Marino Vago: “Siamo strategici per tutto il Paese”

Chi è chiamato a stilare l’agenda economica del Paese dovrebbe annotarsi sul taccuino delle azioni a cui dare priorità alcuni numeri: “Il settore moda allargato che comprende non solo l’industria tessile, ma anche quella dell’abbigliamento, delle calzature, della gioielleria e dell’occhialeria nel 2017 ha dato vita ad una produzione dal valore di 94 miliardi di euro, il 65% della quale destinata ai mercati oltre confine. Con il risultato di un commercio estero dalla bilancia attiva per 27 miliardi di euro, ossia la metà del totale nazionale”. A creare questa vera e propria ricchezza manifatturiera è “per il 55% l’industria tessile che da sola rappresenta il 40% della produzione europea”. Marino Vago, Presidente di Sistema Moda Italia (SMI), snocciola le cifre seduto alla scrivania della propria azienda: la Vago Spa, impresa di tintoria e nobilitazione di filati di Busto Arsizio. Sull’armadio alle sue spalle fa mostra di sé una grande targa con logo e scritta raffiguranti il brand Confindustria. A testimonianza dell’impegno che da sempre contraddistingue la storia personale e imprenditoriale di un uomo che è stato past Presidente dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese, ex Vicepresidente di Confindustria, ex Consigliere del Cda del Gruppo 24 Ore e oggi, appunto, Presidente di SMI, l’associazione di categoria che rappresenta, come si legge sul sito ufficiale, “una delle più grandi organizzazioni mondiali di rappresentanza degli industriali del tessile e moda del mondo occidentale”. Parliamo di oltre 400mila addetti e 50mila aziende.

Numeri importanti, un vero e proprio patrimonio in grado di creare ricchezza e lavoro. Un tesoro, secondo lei, Presidente Vago, abbastanza tutelato, difeso e valorizzato da politica ed istituzioni?
Vago ride. So a cosa si riferisce, ad una recente assenza.

Sì, quella di un rappresentante del Governo alla manifestazione di Milano Unica, uno dei più importanti appuntamenti fieristici del made in Italy tessile. Come la giudica? 
Diamo all’Esecutivo il beneficio del dubbio. Una disattenzione dovuta anche ad un’agenda piena di impegni iniziali per un Governo nuovo che si è appena insediato e alle prese con impegnativi compiti di avvio del lavoro. Spero che però i nostri rappresentanti politici si rendano presto conto del valore che esprime il nostro settore. Se non lo facessero sarebbe un errore politico strategico.

“La sostenibilità non è un termine ma un modo di produrre. Non solo nel rispetto dell’ambiente, ma prima di tutto dei diritti umani. Su questo siamo 5 anni avanti rispetto ai nostri competitor”

Proprio a Milano Unica è stato posto al centro dell’attenzione il tema della sostenibilità. Che significato danno le imprese del tessile e abbigliamento a questo termine?
La sostenibilità non è un termine ma un modo di produrre. Non solo nel rispetto dell’ambiente, ma prima di tutto dei diritti umani. Nella sostenibilità l’industria italiana del nostro settore ha un grande vantaggio competitivo rispetto ai propri principali competitor. In un recente incontro il buyer di un importante brand straniero mi ha detto: “Siete avanti di 5 anni”. Non dobbiamo, però, abbassare la guardia. Ne va del nostro successo e della tenuta dei livelli occupazionali. 

Su questo fronte, quello dell’occupazione, come vanno le cose?
Veniamo da una lunga crisi strutturale partita 20 anni fa. Il nostro è stato il primo settore che ha dovuto affrontare l’onda d’urto della globalizzazione. E lo abbiamo fatto da soli e contro tutti. Il destino delle nostre imprese, in questo scenario, ha rappresentato la merce di scambio politica per diversi accordi internazionali. Il risultato è stato un crollo dei livelli occupazionali. Siamo passati da 1 milioni di addetti ai circa 450mila attuali. In questi anni, dunque, il ricambio generazionale dei lavoratori all’interno delle imprese non ha rappresentato un problema. Una domanda di posti di lavoro nettamente in linea con l’offerta di competenze di chi il lavoro lo aveva perso ha garantito un’autoalimentazione per anni. Ora, però, questo trend non regge più.

Cosa è cambiato?
I numeri dei posti di lavoro dall’anno scorso sono tornati a crescere. Tanto che ora c’è preoccupazione tra le imprese per la capacità del sistema di garantire il giusto ricambio generazionale tra la propria forza lavoro. Ciò vale per tutti i principali distretti tessili italiani. Penso a Varese, ma anche a Bergamo, Biella, Como, Prato, Reggio Emilia, fino al Veneto, l’Umbria, la Campania, la Puglia. I dati ci dicono che nei prossimi anni, solo per effetto del normale turn over, il settore assumerà quasi 50.000 nuovi addetti, soprattutto in ruoli qualificati, con significative percentuali di laureati e diplomati. Ma nelle scuole tecniche e professionali gli iscritti ai corsi dedicati alle professioni del settore sono largamente insufficienti per coprire la domanda delle imprese. Dobbiamo porre rimedio ai nostri stessi errori.

Di quali errori parla?
Abbiamo sbagliato comunicazione. Ci siamo per troppo tempo chiusi nelle nostre problematiche senza dire chiaramente ai nostri giovani e alle loro famiglie che l’industria tessile può rappresentare un’occasione per costruirsi un futuro. 

“I dati ci dicono che nei prossimi anni, solo per effetto del normale turn over, il settore assumerà quasi 50.000 nuovi addetti, soprattutto in ruoli qualificati, con significative percentuali di laureati e diplomati”

Come rimediare?
Sistema Moda Italia ha appena costituito il Comitato Education che con il contributo di tutte le imprese del settore cercherà di riaccendere l’attenzione sul tema della formazione dei giovani sulle professioni tipiche ed insostituibili per le produzioni del tessile e dell’abbigliamento. Lavoreremo sulla valorizzazione dell’immagine delle professioni tecniche dell’industria della moda; sull’orientamento scolastico; l’alternanza scuola – lavoro; sull’istruzione tecnica e professionale; sull’incremento dei corsi ITS (Istruzione Tecnica Superiore post diploma); sull’aggiornamento dei docenti e dei programmi. Il made in Italy per continuare a vincere nel mondo ha bisogno di nuove risorse umane.

A proposito di mondo, quali sono i mercati dove il made in Italy sta andando meglio?
Attualmente i nostri principali mercati di sbocco sono Francia, Svizzera, Stati Uniti, Germania, Honk Kong, Spagna, Cina, Corea e Gran Bretagna. In divenire i Paesi più interessanti sono nel Far East e il Canada.

Politica commerciale sovranista permettendo. 
Accarezzare l’idea che la politica dei dazi e dell’opposizione agli accordi di libero scambio possa far bene al made in Italy è un errore strategico. Le nostre imprese vivono di export. La moda italiana ha sempre attratto i consumatori stranieri, ma adesso notiamo un crescente interesse anche per i prodotti intermedi della filiera. Una guerra commerciale ora sarebbe deleteria. La qualità sui mercati avrà sempre più importanza, anche rispetto ai brand. E ciò apre scenari favorevoli al tessuto produttivo dei distretti italiani fatti soprattutto di Pmi. Ma anche qui dobbiamo rimediare a errori di comunicazione del passato.

Un altro gap? Quale questa volta?
Sul fronte della comunicazione digitale dobbiamo recuperare terreno nei confronti della generazione dei millennials, guardando anche alla cosiddetta generazione zeta. Giovani alla ricerca del vero valore del capo di abbigliamento, più di quello che è capace di portare il solo brand. Giovani, però, che si informano sul web e sui social. Ed è qui che dobbiamo lavorare per migliorare la reputazione digitale delle nostre imprese. Dobbiamo riuscire a raccontare di più e meglio ciò che sappiamo fare, con progetti di sistema che siano in grado di mettere insieme su iniziative e piattaforme comuni le aziende. 

Chiudiamo con una nota personale: al suo lavoro di imprenditore ha sempre affiancato un forte e convinto impegno confindustriale. Perché? Cosa l’ha spinta alla vita associativa?
Ho sempre trovato nella vita associativa un valore aggiunto relazionale. Un’occasione per scambiare idee, confrontarsi con altri colleghi, arricchirsi dell’esperienza degli altri. Ma attenzione, non ho mai cercato incarichi. Quelli che mi sono stati affidati li ho accettati su indicazione e richiesta di altri. La mia visione è che alle cariche associative si viene chiamati, non ci si candida. 

Qual è il ruolo di Confindustria e delle associazioni che la compongono in una società in cui domina la disintermediazione?
Mettiamola così: se avessimo in Italia una cultura nazionale non così anti-industriale forse il Sistema Confindustria avrebbe più un ruolo di sostegno tecnico alle imprese, piuttosto che il ruolo politico e di visione che abbiamo il compito di portare avanti oggi. Il Sistema Confindustria è essenziale per difendere l’idea che il benessere prima di essere redistribuito debba essere prodotto. In questa visione l’impresa rappresenta un valore fondamentale e Confindustria ha il compito di difenderla da chi ne mette in dubbio l’importanza in termini di interesse generale. Ecco perché aderire a Confindustria per il tramite delle associazioni territoriali e di categoria è così importante.  

 

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