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Non solo prodotto ma anche valore, intangibile e difficile da misurare, eppure prioritario. L’importanza per un’impresa di evidenziare non solo quello che si fa, ma soprattutto ciò che si è, rappresenta la base di tutte le più moderne ed efficaci strategie di comunicazione aziendale (vedi intervista di apertura di questa inchiesta a Luigi Negrini). In tempi di comunicazione iperveloce, tale necessità di approfondimento e di raccontare la propria identità sembra, però, quasi assumere i contorni di un controsenso, all’apparenza un ripensamento di quanto visto negli ultimi anni di marketing giocato sul filo dei secondi. Un rallentamento? Lo abbiamo chiesto a Patrizia Musso, docente dell’Università Cattolica e ideatrice di Brandforum.it e dello Slow Brand Festival, una iniziativa dedicata a premiare le eccellenze in questo campo.

"Vincere imparando a correre più lentamente": è il titolo di uno dei suoi libri dedicati agli Slow Brand. Sembra affascinante ma anche un po’ distante dalla concretezza della realtà aziendale. Ci spiega cosa significa?

Partiamo da un esempio più comunemente inteso: Slow Food. Se per quanto riguarda il cibo questa definizione viene compresa e apprezzata, in tutto il suo fascino, da ogni tipo di pubblico. Quando si parla di Slow Brand le persone lo associano al rimanere fermi e immobili. Invece, la filosofia è esattamente la stessa: la riscoperta di valori e di un patrimonio di conoscenze e tradizioni che rende ciascuna realtà unica. Mi occupo di Slow Brand dal 2013: la logica vincente è non farsi schiacciare dal solo fast che è assolutamente fondamentale, perché il mercato e il mondo della comunicazione si muovono velocemente, ma di intercettare senza miopia quei momenti in cui si può e si deve essere slow. Senza far finta di dirci tutti che dobbiamo tassativamente sempre e solo essere fast, perchè non è vero: lo sappiamo ancor prima come persone che come imprenditori e dipendenti! Il punto di partenza e di vista è sociologico non economico: non ci fermiamo, perché non ci vogliamo fermare, ma, in realtà, potremmo. E allora perché non farlo? Del resto, anche il web sta rallentando. Basti pensare ai video che non sono più della durata di pochi secondi: i lettori sono disposti a fermarsi perché danno valore ai contenuti e all’approfondimento.

È una visione romantica la sua, se permette un’etichetta slow. Ma il tema del momento è l’industria 4.0. Decisamente smart. Lei sostiene che le imprese stiano riscoprendo l’attitudine slow, in termini di comunicazione ma anche di modo di vivere l’azienda. Non è un controsenso?

Le grandi imprese l’hanno compreso, in realtà da tempo, in primis nello slow advertising. Pensate alla classica pubblicità dei biscotti del mattino: abbandonata la figura della mamma ultra stressata, che fa ingurgitare ai figli la colazione con l’imbuto, si è passati a tranquilli attori americani che, rinfoderata la spada di Zorro, li impastavano con aria flemmatica, chiacchierando con una gallina per arrivare oggi a vere e proprie sit com dilatate nel tempo e centrate sul legame tra il prodotto e il territorio, la natura, la storia e le tradizioni del made in. E non parliamo solo di pubblicità, ma di vita aziendale: l’industria 4.0 funziona se i dipendenti lavorano bene e per farli lavorare bene bisogna ricordarsi che sono persone. Quindi valorizzare il fattore tempo, valori, etica è fondamentale. Pensate alle politiche di welfare: secondo la prima ricerca realizzata in Italia da Swg nel 2017 su 175 imprese italiane con più di 100 dipendenti che hanno scelto di promuovere una politica di welfare aziendale, dove viene proposta ai lavoratori la possibilità di accedere a servizi legati alla famiglia e alla salute, i vantaggi sono tangibili. Il 37,4%, per esempio, ha riscontrato un aumento della produttività. Pensate poi alle adesioni e alla varietà di iniziative legate alla promozione di sani stili di vita sul luogo di lavoro come il progetto Whp promosso dalle associazioni industriali su vari territori (tra cui Varese ndr). Pensate infine al prestigioso elenco annuale delle imprese più etiche al mondo stilato dall’Ethisphere Institute, tra cui l’italiana Illy. Tutto questo fa capire che Fast & Slow devono andare insieme. Così nella comunicazione come nella vita in azienda, a partire dalla gestione degli spazi. Grandi brand come Ikea e Campari, premiati allo scorso Slow Brand Festival di Milano, hanno fatto proprio questo concetto.

Ma sono appunto grandi. Come può vivere questa dimensione una Pmi?

In realtà sono proprio le Pmi a rappresentare delle ottime best practice, quelle più smart nel loro essere slow, se vogliamo. Spesso però sono restie a raccontare la propria esperienza perché legate ad una vecchia concezione del “meglio fare che comunicare”. Ma io dico: meglio fare comunicando; comunicare senza fare è peggio. In ogni caso potremmo continuare all’infinito con gli esempi di buone prassi. Pensiamo all’esperienza emblematica di Loccioni ma anche a casi più vicini al territorio. All’ultimo Slow Brand Festival, ad esempio, abbiamo chiesto ai lettori di segnalarci esperienze esemplari di Slow Brand e ci sono arrivate le nomination di due realtà che i varesini conoscono bene: quella della Alfredo Grassi, molto vicina ai dipendenti, e quella di Eolo, che lo scorso anno si è distinta per un’iniziativa innovativa di recruitment rivolta agli over 45. Curiosa la menzione di quest’ultima: un’impresa che ha nel suo core business la velocità, ha ideato progetti lenti per puntare alla qualità di vita del suo team. Certamente è importante, o meglio prioritario, che la dirigenza capisca e sposi appieno quest’idea. È per questo che premiamo anche gli Slow Boss, capi “illuminati” che ci vengono segnalati dai lettori. In fondo, anche nella cura della brand identity, quello che fa la differenza sono le persone.

 

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