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La forza dell'invidia

L’invidia, nel suo duplice manifestarsi - esistenziale e patologico - si configura come forza devastante, che ha nel tatto la modalità privilegiata con cui distruggere l’altro.

Indagare l’invidia significa affrontare i sentieri oscuri dell’anima, i suoi impulsi interiori, le sue modalità "malate" di stare nel mondo.
Raramente, infatti, l’invidioso ammette il suo sentimento, anzi lo confina negli strati più nascosti della sua coscienza, della sua intelligenza emotiva, del suo cuore. Attua tutta una serie di strategie per occultarlo, ma esso, a uno sguardo più vigile, riaffiora in tutta la sua devastante forza.
L’invidia si delinea, appunto, come una forza, un tentativo di allargare i propri territori affettivi, professionali, sociali.
L’invidioso avverte il suo senso di incompiutezza rispetto all’altro che ottiene successi e gratificazioni. Vorrebbe imitarlo, gareggiare con lui, instaurare un proficuo, positivo confronto, ma non ci riesce. Avverte la propria inadeguatezza, l’impossibilità strutturale di ottenere le stesse gratificazioni, gli stessi traguardi dell’altro. L’altro diventa, allora, il nemico da distruggere, la proiezione ideale del proprio io limitato, mancante dei requisiti necessari per passare dall’invidia all’essere invidiato.
Ecco, allora, che l’invidioso mette in atto una sorta di liturgia, crea un universo simbolico, con il solo scopo di eliminare la "visibilità sociale" dell’altro.
Una parte cospicua della filosofia contemporanea sottolinea come all’origine dell’invidia ci sia proprio la relazione con l’altro, quella che, uno dei più raffinati e profondi pensatori del Novecento, Emmanuel Lévinas, definisce "apertura al volto".
Nel caso dell’invidia, la relazione si fa arida, non autentica, carica di energie negative: "Il volto - dice Lévinas - è esposto, minacciato, tale da sfidarci quasi a un atto di violenza".
Colui che soffre di invidia non vede nel volto dell’invidiato una sua "povertà essenziale", non pensa che anche l’uomo di successo possa avere le sue debolezze, le sue delusioni e i suoi travagli esistenziali. No! Egli vede in lui solo un essere da "uccidere" psicologicamente.
Nasce, così, quella che abbiamo chiamato la liturgia, l’universo simbolico dell’invidioso, che si concretizza soprattutto nel tatto.
Normalmente il toccare, l’accarezzare, lo sfiorare indicano gestualità positive del corpo che protende se stesso - guidato dal sentimento - verso l’altro. Nel caso dell’invidioso, di contro, il toccare ripetutamente l’invidiato, indica una modalità privilegiata di fare del male. Se avvertite una persona invidiosa intorno a voi, ricordatevi che la sua manifestazione più eloquente consiste nel toccarvi con insistenza, quasi che volesse succhiare le vostre potenzialità positive e feconde per trasmettervi le sue, quelle di un uomo che si sente incompleto, manchevole, deficitario, incapace di realizzarsi compiutamente. Goethe, nel suo splendido romanzo "Le affinità elettive", diceva che: "Contro la grande superiorità di un altro non c’è mezzo di salvezza all’infuori dell’amore". Ma l’invidioso non conosce questo linguaggio, neppure quello dell’ammirazione, perché viene soggiogato esclusivamente dai suoi impulsi interiori.

La meraviglia, fonte della conoscenza - Varesefocus aprile 2001

01/18/2002

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