|
Ma il keynesismo era un'altra cosa
I cattolici seguaci di La Pira e Dossetti percepivano il liberalismo come il loro avversario, in quanto portatore di una concezione dello Stato affrancata da qualsiasi impronta confessionale. Mentre si battevano per un più largo intervento dello Stato nell'economia, rimaneva loro estraneo il concetto che solo uno Stato rigoroso ed efficiente può essere utile ai fini dello sviluppo.
Giusto trent'anni fa, Gianni Baget Bozzo pubblicò una storia della Democrazia Cristiana (Il partito cristiano al potere, Vallecchi, Firenze, 1974) che fu generalmente apprezzata per la ricchezza dell'informazione - anche se talvolta un pò approssimativa sotto il profilo del rigore filologico - e la brillantezza della scrittura, ma non incontrò molti consensi per la tesi troppo faziosa, seppure acutamente argomentata, sulla quale si reggeva il suo impianto.
Da buon dossettiano, quale era stato in gioventù, Baget Bozzo sosteneva che, nel contrasto tra De Gasperi e Dossetti - le due anime della DC tra gli ultimi anni '40 e i primi '50 - chi interpretava in chiave "liberale" il ruolo dei cattolici nella politica italiana era appunto Dossetti, mentre De Gasperi sarebbe stato il vero integralista in quanto intendeva la DC come un partito che avrebbe dovuto riunire in se stesso e rappresentare l'intero universo cattolico, al di là delle sue articolazioni e divisioni interne.
Che fosse una tesi meramente ideologica, senza nessun fondamento sul piano storico, basterebbe a dimostrarlo la lettera di Giorgio La Pira a Pio XII riprodotta nelle pagine precedenti. Infatti La Pira era anche lui un dossettiano, anzi il più fervido dei dossettiani, e lo rimase, a suo modo, fino alla morte, nel 1977.
Ciò che colpisce, nella lettera di La Pira, non è tanto la durezza, ma diciamo pure la violenza della sua polemica contro il liberalismo. In uno dei suoi filoni principali, per tutta una lunga stagione, almeno fino agli anni '30 del Novecento, il pensiero cattolico ha battuto con assidua insistenza su questo tasto. E se La Pira parla di "liberalismo economico" ma si mostra indifferente alla distinzione tra liberalismo e liberismo, anche questo si può considerarlo un residuo, se non più complessivamente il retaggio di una tradizione culturale e politica in cui quello che i cattolici percepivano come il loro avversario era il liberalismo in quanto tale. Cioè, per essere più precisi, in quanto portatore di una concezione dello Stato affrancata da qualsiasi impronta confessionale.
Colpisce piuttosto, in questa filippica di La Pira, il modo in cui si rappresenta (e rappresenta a Papa Pacelli) i protagonisti e comunque i fautori di quell'"economia liberale" che attacca così furiosamente: una rappresentazione farsesca, se non vogliamo dire una falsa rappresentazione.
Certo, ancora verso la fine degli anni '50, basso e stretto era l'orizzonte culturale di una gran parte degli imprenditori italiani. È un dato di fatto riconosciuto da chi, nel mondo di Confindustria, già allora cominciava a porsi il problema di un rinnovamento destinato a trovare poi il suo sbocco nel rapporto Pirelli. Ma anche degli imprenditori meno pronti, meno disposti ad aggiornare la loro mentalità, non si può dire onestamente - obiettivamente - che fossero rimasti a Bastiat, a Maltus, a Ricardo e alla sua "legge di bronzo" in tema di salari.
Tra l'altro, proprio in quegli anni, per quanto fossero pochi a rendersene conto, veniva germogliando una nuova imprenditoria che presto sarebbe salita alla ribalta e avrebbe dato vita a un "neo-capitalismo" - come si diceva all'epoca - fortemente innovativo non solo negli aspetti economici ma anche agli effetti sociali.
Quel neo-capitalismo di cui una figura esemplare resta un grande industriale come fu Giovanni Borghi.
Ma c'è, nella lettera di La Pira, un accenno a Keynes, nel quadro di una valutazione relativamente positiva del liberalismo anglosassone, che forse permette di individuare il punto critico della sua visione politico-sociale.
Bisogna ricordare che, tra il 1947 e il '51, fu la rivista dei dossettiani, Cronache Sociali, diretta da Giuseppe Glisenti, a introdurre nel dibattito politico italiano le idee di Keynes, insieme a una massa di informazioni, riflessioni, analisi sull'esperienza inglese del Welfare State e quella americana del New Deal.
Si trattava di riforme che i dossettiani sarebbero stati ben lieti di importare in Italia (come poi avvenne, ma in maniera confusa e disordinata, grazie anche al contributo di alcuni loro epigoni, in prima fila Fanfani). Tuttavia, per quanto fossero di fatto riformisti, questi democristiani anomali consideravano però il riformismo una specie di sottoprodotto rispetto all'ideale di una rivoluzione, o forse meglio una rigenerazione economico-sociale, se non anche antropologica. Una rivoluzione che Dossetti riteneva al tempo stesso necessaria e impossibile (e questo fu essenzialmente - penso - il motivo per cui nel '51 si ritirò dalla vita politica e scelse la via del sacerdozio).
In realtà, i loro schemi - e schermi - ideologici impedivano loro di vedere che solo in un'economia di mercato, la detestata economia liberale, quelle riforme potevano avere successo. Nel senso di aumentare l'occupazione e migliorare il tenore di vita dei ceti meno abbienti: che erano, giustamente, i loro obiettivi.
Allo stesso modo che, mentre si battevano per un più largo intervento dello Stato nell'economia, rimaneva loro estraneo il concetto che solo uno Stato rigoroso ed efficiente può essere utile ai fini dello sviluppo, quale che sia la dimensione dell'economia pubblica.
Nel pensiero e nell'azione di La Pira, tutto ciò era estremizzato - diciamo così - dalla sua straordinaria sensibilità religiosa. La Pira era un uomo di fede in senso assoluto. L'unica volta che l'ho incontrato di persona, verso la fine degli anni '50, mi fece da questo punto di vista un'impressione che è rimasta indelebile nei miei ricordi. E non credo dipenda dalla circostanza che allora ero poco più che un ragazzo.
In La Pira non c'era tanto un deficit di cultura politica ed economica, come pure poteva sembrare, quanto c'era semmai un sovrappiù di fiducia nella Provvidenza come intervento divino capace di dare agli uomini la forza di oltrepassare, nel far fronte ai problemi della vita, i comuni limiti della razionalità. Era questo che caratterizzava il suo modo di pensare ed agire nella stessa misura in cui lo allontanava da un approccio realistico alle questioni da risolvere. Mi sembra illuminante al riguardo che, proprio nella lettera riprodotta qui, La Pira definisca semplicemente "volontaristica" la complessa concezione keynesiana dell'economia.
"Il dossettismo non riuscì, nella sua espressione più elevata, a passare dall'approccio romantico-ideologico a quello pragmatico proprio di certi liberals americani; anche se si deve riconoscere che è più difficile fare il liberal in Italia piuttosto che in America, senza Harvard, coi comunisti e, sia detto senza cattiva intenzione, con un partito a base sociologica confessionalmente qualificata".
Più di quaranta anni fa, questo scriveva Leopoldo Elia nella sua prefazione a un'ampia antologia di Cronache Sociali (Landi Editore, San Giovanni Valdarno - Roma, 2 volumi, 1961). Pur consentaneo ai valori del dossettismo, Elia ne individuava lucidamente i limiti, ovvero le ragioni per cui aveva finito col fallire sia in materia di politica economica, sia sul terreno politico - istituzionale.
È un giudizio senz'altro da condividere. Ma chi poteva osare di dirglielo, a Giorgio La Pira, che per dare un pò di concretezza ai suoi ideali, avrebbe dovuto diventare un pò meno illiberale?
02/19/2004
|