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Se Damiano va piano qualcun altro corre
L’accelerazione impressa alla revisione della normativa sui contratti a tempo determinato sembra rispondere più all’esigenza di dare soddisfazione alle componenti più ideologizzate della maggioranza di governo, che a necessità reali del mercato del lavoro.
Nel numero di ottobre 2006 di Varesefocus avevamo titolato “Damiano va piano" un articolo che raccontava dell’atteggiamento prudente del Ministro del lavoro rispetto alle richieste, avanzate da alcune componenti della maggioranza di governo, di riformare e addirittura abrogare la legge Biagi, il provvedimento che, dando compimento alla precedente legge Treu del 1997, ha completato nel nostro paese un percorso, peraltro imposto dalle direttive europee, teso ad infondere flessibilità nei rapporti di lavoro, superando il tradizionale modello del contratto a tempo indeterminato. Un contratto rigido, che aveva finito per scoraggiare le imprese ad aumentare gli organici.
Ora, però, il Ministro Cesare Damiano sembra aver abbandonato la prudenza dimostrata nei primi mesi del nuovo governo e, probabilmente per dare soddisfazione alle frange minoritarie della coalizione, senza preavviso ha posto un ultimatum alle parti sociali presentando loro un documento per procedere alla riforma dei contratti di lavoro a termine. Il ministro ha chiesto di definire un “avviso comune" sulla base di precise linee guida che, in sintesi, riporterebbero la disciplina di tali contratti indietro nel tempo, limitandone la praticabilità con riferimento sia alle causali, sia alle durate, sia al numero dei contratti attivabili.
Qualora le parti sociali non dovessero pervenire ad un avviso comune, il governo si riserva di procedere alla modifica della disciplina vigente (la ricordata legge Biagi) con un provvedimento legislativo ad hoc. La risposta di Confindustria è stata immediata e ferma. “L’intervento del ministro - ha dichiarato il vicepresidente per le relazioni industriali Alberto Bombassei - non solo è inutile in quanto la legge italiana è già rispettosa di una direttiva europea, ma è anche un intervento di autorità in spregio alle parti sociali che già avevano raggiunto, a livello comunitario, un accordo su tale argomento nel marzo del ’99".
In effetti, ciò che in Italia sembra ancora lontano dalla mentalità e dal sentire comune, nel resto d’Europa e del mondo è una realtà da sempre. Basta osservare la tabella a pag. 16 per rendersi conto di come il nostro paese sia tra quelli dove si fa meno ricorso ai contratti a termine e la differenza con altri paesi, Spagna in testa, è notevole. Del resto, anche il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, aveva riconosciuto, in occasione dell’assemblea annuale dell’Unione Industriali della provincia di Varese del maggio scorso, che in Italia è il settore pubblico quello che fa maggiore ricorso ai contratti a tempo determinato. Se esiste dunque una “precarietà cronica" in alcuni settori, sarebbe ragionevole intervenire in quelli per ricondurre i contratti cosiddetti interinali alle loro ragioni fisiologiche, legate all’organizzazione del lavoro e non solo alle punte di lavoro. Ma non eliminare tale opportunità, indiscriminatamente, in tutti i settori di attività. Senza dimenticare, in fondo, che i contratti a termine sono, in molti casi, l’anticamera di un lavoro stabile. Gli ultimi dati indicano che i lavoratori assunti stabilmente, dalle imprese che hanno fatto ricorso a contratti temporanei, sono prossimi al 40% per cento degli avviati.
Il ministro Damiano ha recentemente dichiarato, in un’intervista al settimanale Economy, che non cancellerà la Biagi ma che intende rimettere al centro percorsi di stabilizzazione del lavoro che, senza negare una buona flessibilità, abbiano come fondamento il rapporto a tempo indeterminato. “Dobbiamo trovare - ha precisato - nuove vie che consentano alle imprese di utilizzare la buona flessibilità quando si trovano di fronte a una domanda di mercato imprevedibile. Il paradosso della legislazione italiana è che il lavoro flessibile costa meno di quello stabile. Dovrebbe essere il contrario. Per questo - ha chiarito - nella Finanziaria la diminuzione del cuneo fiscale per le imprese è collegata al lavoro a tempo determinato".
Detto così, sembra di tornare indietro di 45 anni, al quel 1962 nel quale venne varata la legge che disciplinava allora, in maniera alquanto restrittiva, l’utilizzo di contratti a termine solo in alcuni casi tassativi come le punte di lavoro (ma solo in alcuni settori produttivi) e le sostituzioni per malattia e maternità. Il mercato è cambiato e, soprattutto, sono cambiate le condizioni competitive nelle quali le imprese italiane si trovano ad operare. Il mercato globale impone di avere regole uniformi, quanto meno in Europa.
Certo è che, grazie alla flessibilità introdotta già dalla legge Treu, l’occupazione complessiva è cresciuta in misura significativa dal 1998 al 2001, quando ha raggiunto la punta massima del +2,6 per cento e che, sia i dati Istat, sia quelli di Bankitalia, dimostrano che dopo l’introduzione della legge Biagi è cresciuta la percentuale di coloro che trovano occupazione attraverso un contratto di lavoro temporaneo. Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia, osserva che grazie alla Biagi la disoccupazione è scesa dall’11 al 6,5 per cento e a chi obietta che metà dei nuovi posti di lavoro è a termine risponde che si tratta di occupazione aggiuntiva e che in realtà si è verificato un saldo attivo di un milione e mezzo di nuovi occupati.
La questione, allora, sembra essere quella di accelerare questa trasformazione sostenendo lo sviluppo perché, in tal modo, si sosterrà di conseguenza più facilmente anche l’occupazione. Sarebbe allora utile riproporsi il vecchio interrogativo se venga prima l’uovo o la gallina. Mutatis mutandis, se sviluppo e occupazione siano due variabili indipendenti. Dobbiamo infatti interrogarci sul modello di sviluppo piuttosto che imporre modelli di occupazione a prescindere dalle condizioni che ne consentirebbero l’adozione. Scegliere di sostenere lo sviluppo piuttosto che imporre un’unica tipologia di contratto di lavoro, in questa prospettiva aiuterebbe molto.
01/19/2007
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