Vita-da-arbitro

I raduni a Coverciano, la formazione tecnica, l’allenamento fisico: ecco come si diventa “direttori di gara” di Serie A. La storia di Daniele Minelli che da Morosolo è arrivato, fischietto in bocca, ad arbitrare la massima serie 

A lui le partite di calcio non piace giocarle. Preferisce arbitrarle. Da sempre. Già da bambino. Perché il sogno di Daniele Minelli, varesino di Morosolo, è sempre stato quello di diventare arbitro di calcio. E così, appena compiuto i 15 anni d’età, necessari per muovere i primi passi nel ruolo di direttore di gara, Minelli si iscrive al corso per arbitri. Lo conclude e a 16 anni non ancora compiuti fa il suo esordio in campo. Era il 17 marzo 1998, nella partita tra Arcisatese Audax e Ceresium.
Da quell’esordio “a due passi” da casa Daniele Minelli ne ha fatta di strada in giro per l’Italia, sui campi di calcio e in quasi tutti gli stadi più importanti del Paese: serie D, Seconda divisione, Prima 
divisione, Serie B e Serie A. Tre partite dirette nella massima serie per ora. Ma soprattutto una carriera scandita da promozioni all’interno della sua categoria (oggi è Arbitro Can B) e da premi e riconoscimenti: miglior arbitro C.R.A. Lombardia e d’Italia e premio “Lealtà nello sport” Enel-Lnd nel 1998, il Premio Roberto Prati e il Premio Sportilia riservato al miglior giovane arbitro distintosi in Lega Pro nel 2011. 

Daniele Minelli quando e perché ha scelto di fare l’arbitro?
Il calcio è sempre stato il mio sport preferito. Da bambino ho anche giocato, però non ero capace e non mi è mai piaciuto praticarlo. Insomma, ho capito quasi subito che stare in campo da giocatore non sarebbe stata la mia strada. Io volevo fare l’arbitro. Anche quando ero piccolo, durante una partita di pallone, spesso osservavo il direttore di gara. Come si muoveva, cosa faceva. Quello era il mio sogno, arrivare ad arbitrare in serie A il mio obiettivo.

Centrato nel 2014: stadio Azzurri d’Italia di Bergamo, partita Atalanta vs Verona. Cosa ha provato in quell’occasione sognata a lungo e finalmente arrivata?
Ho iniziato ad arbitrare per arrivare lì, quindi una grande e bella emozione. Arrivare ad arbitrare in serie A non è semplice, ma ancora più difficile è restarci.

Come si diventa arbitro e come si arriva ad arbitrare nella massima serie?
La prima cosa necessaria da fare è seguire il corso. Dopo di che si inizia ad arbitrare nelle serie minori. Sui campi ci sono osservatori che esprimono, in termini numerici, un giudizio sull’arbitro e sulla conduzione della partita. A fine stagione viene stilata una graduatoria. I primi due salgono di categoria, mentre gli ultimi tre devono smettere. Ecco perché restare ai massimi livelli non è semplice.

Occorre essere professionisti. Quando non è in campo ad arbitrare cosa fa?
Il professionismo arbitrale in Italia non esiste ancora. Tutti gli arbitri però è come se lo fossero. A partire dalla mentalità con cui ognuno svolge questa attività. I raduni a Coverciano, la formazione tecnica, l’allenamento fisico. Sono tanti gli aspetti da curare e mantenere sempre al top. E poi le partite: in genere si arbitra una partita sì e una no. Ma ogni volta che si gioca “si è in campo”. Non come arbitro, ma come quarto uomo.

Come si prepara per arbitrare una partita?
Studiando. Conoscere le squadre sotto il profilo tattico è per noi fondamentale. Abbiamo un programma che ci mostra come una squadra si schiera sui calci d’angolo, come batte le punizioni. Saper questi dettagli ci permette in tutta una serie di situazioni che si verificano in campo, di posizionarci nel modo migliore e corretto. Oltre a tutto questo, la concentrazione è poi importantissima. Oltre al fatto che bisogna leggere l’azione con qualche frazione di secondo in anticipo. Mi spiego meglio: quando un giocatore sta per crossare, prima che lui lo faccia, io devo già vedere cosa sta accadendo in area. Se guardo dove sta il pallone non posso avere una visione completa di quanto accade.

Quanto aiuta la tecnologia in questo senso?
È molto importante. Soprattutto oggi che il calcio è caratterizzato da una velocità esasperata per cui si fa fatica a cogliere i dettagli. Però attenzione, la tecnologia in alcune situazioni non riesce a mostrare quello che realmente è accaduto in campo. Mi spiego meglio: in una fase di spinta tra giocatori, ad esempio, non sempre un rallenty riesce da darti l’intensità giusta. Quella la può percepire solo l’arbitro.

Qual è stata la partita più difficile che ha arbitrato?
Per un arbitro non ci sono partite facili. Se escludo l’esordio in serie A, credo la finale di ritorno di prima divisione tra Latina e Pisa per salire in serie B.

Ha un modello di arbitro al quale fa riferimento?
Abbiamo sempre avuto grandi arbitri. Personalmente osservo tutti i miei colleghi in attività e che sono ai massimi livelli, poiché da ognuno di loro c’è sempre qualcosa da imparare.

Il rapporto tra arbitro e pubblico è a volte conflittuale. Voi arbitri finite nel mirino per ogni decisione non condivisa. In campo sentite queste pressioni del pubblico, che spesso degenerano in insulti e offese?
No, la concentrazione è talmente alta che quella è l’ultima cosa a cui si pensa in campo. Certo abbiamo la percezione di come è stata presa una decisione, ma questo non mi condiziona. Credo che l’importante sia fare sempre la scelta giusta. Dopo di che, il pubblico fa il pubblico, ma noi continuiamo a fare gli arbitri.

Tre buoni motivi per convincere un giovane a intraprendere la carriera di arbitro?
Non ho dubbi: ti responsabilizza, ti insegna a prendere decisioni in una frazione di secondo e ti fa girare l’Italia. Un giovane arbitro si trova subito davanti a responsabilità che oggi nemmeno un ragazzo più grande si prende o immagina. Non solo. Arbitrare poi insegna a prendere decisioni e a farlo in pochissimo tempo. Infine, viaggi parecchio. Insomma, non è una vita facile essere quasi sempre in viaggio, però è uno degli aspetti che più mi piace della mia professione.

Quindi consigli a tutti i ragazzi di provare questa esperienza?
Assolutamente sì. È davvero formativa. 



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