L’epidemia di Coronavirus pone l’impalcatura della Ue di fronte alla propria immagine. Cosa vuole essere Bruxelles nei prossimi anni? Quali strumenti vuole utilizzare per uscire da una crisi che rischia di essere devastante per tutti gli Stati membri? Da queste risposte dipende il suo futuro

È particolarmente arduo formulare oggi delle stime sensate sulle conseguenze che il Coronavirus potrà avere sull’economia dell’Europa e, segnatamente, dell’Italia. Anche perché Covid-19 fa parte di quel gruppo di virus detti Ecovirus che non sono solo letali per l’uomo, ma anche devastanti per le economie dei Paesi “ospiti”. Tuttavia, le recenti stime del Fondo Monetario Internazionale prevedono, nell’ipotesi di un rientro dell’allarme sanitario entro l’estate, una perdita economica a livello mondiale nel biennio 2020/2021 di 9.000 miliardi di dollari. Sempre secondo Fmi, nel 2020, l’Ue evidenzierà un calo del suo Pil del 7,5% con l’Italia in penultima posizione dopo la Grecia con un Pil in calo di oltre il 9%. Comunque, non molto peggio dei principali partner europei (Germania -7%, Francia -7,2%, Spagna -8%, Uk -6,5%).

Da evidenziare, inoltre, che lo scenario economico prospettico è reso particolarmente instabile dalla grande incertezza legata alla durata dell’emergenza sanitaria. E questa incertezza è anche connessa al rischio che, nel disperato tentativo di rimettere in moto il volano dell’economia, si possa abbassare la guardia anzitempo determinando così un andamento a “denti di squalo” caratterizzato da più picchi di contagio continuativi e ravvicinati. Che poi è ciò che è successo con la Spagnola del 1918. Il punto è che gli effetti economici della pandemia potrebbero colpire l’Italia anche in misura maggiore rispetto ad altri partner europei, specie quelli del nord Europa, per almeno due ragioni. La prima è che gli Ecovirus, come tutti i virus, diventano particolarmente aggressivi a fronte di scenari economici, quale il nostro, già provati da patologie conclamate o con gravi sindromi immunodepressive (scarsa crescita, scarsa produttività, elevato indebitamento). La seconda è che questa tipologia di virus, a causa dell’aggressività del suo contagio, genera uno stato di ansia sociale diffusa i cui effetti negativi si riverberano soprattutto su alcuni settori a forte componente emotiva per noi strategici. Basterà pensare al settore turistico ed alle nostre esportazioni alimentari appena scampate per miracolo alla mannaia dei dazi di Trump. Tuttavia, esiste un motivo che potrebbe indurre ad una visione più ottimistica dello scenario che ci attende. Infatti, non dovremmo dimenticare che la precedente crisi ci ha insegnato che “cose eccezionali si fanno solo in momenti eccezionali”.

Un’inazione della Ue potrebbe lasciare i Paesi più deboli e indebitati abbandonati alla speculazione che, come noto, caccia in branco alla ricerca di prede ferite ed isolate

Le armi messe in campo dalla Bce che oggi ci sembrano normalissime - Quantitative Easing da 1.000 miliardi, linee di liquidità straordinarie a medio termine (Tltro), limitazioni alla normativa di vigilanza sulla gestione del credito deteriorato (Npl) - erano pura fantascienza nel periodo ante-Draghi. E, ancora oggi, i tedeschi non si capacitano di come abbiano potuto consentire a Draghi di modificare geneticamente il Dna della “loro” Bce, nata a immagine e somiglianza della Bundesbank con l’unico scopo di contrastare l’inflazione (sindrome di Weimar). Come erano catalogati “pura fantascienza” gli interventi attivati oggi dalla Commissione Europea per fronteggiare questa pandemia. Basterà ricordare, la sospensione del Patto di Stabilità, l’ammorbidimento della normativa sugli “aiuti di stato”, la possibilità lasciata ai Paesi di difendere le proprie imprese strategiche da scalate ostili (Golden Rule) e molto altro.

Tuttavia, a fronte della possibilità di essere travolti da una onda anomala in grado di sommergere non solo l’economia dell’Unione Europea, ma anche la sua stessa impalcatura politica, tutto questo potrebbe non bastare. E allora, guardando soprattutto alla successiva fase della ricostruzione, diventa fondamentale continuare a ragionare su interventi innovativi anche se fino ad oggi considerati impensabili. Ad esempio, sulla possibilità di trovare un accordo su qualche embrione di strumento che preveda una prima condivisione del rischio a livello europeo. In quest’ottica, forse un primo varco è stato aperto dalla proposta francese di un Recovery Found destinato a fronteggiare la ricostruzione, tuttavia, sicuramente, la strada è ancora lunga e tortuosa.

Rimane comunque il fatto che, in assenza di una risposta concertata a livello di Ue, si avrebbero due conseguenze molto gravi. La prima è che i Paesi più deboli ed indebitati verrebbero abbandonati alla speculazione che, come noto, caccia in branco alla ricerca di prede ferite ed isolate. La seconda è che nella successiva fase della “ricostruzione” si accentuerebbe drammaticamente la divaricazione tra i Paesi con una struttura finanziaria solida in grado di affrontare in maniera più autonoma la crisi (come Germania e Olanda) e Paesi più fragili quali Italia, Spagna che ovviamente incontrerebbero difficoltà molto maggiori. Il punto è che, verosimilmente, questa sorta di “distanziamento sociale delle economie” genererebbe una pressione sull’impalcatura europea dagli esiti del tutto imprevedibili. E, come sanno bene gli abitanti della California, più aumenta la pressione sulla faglia di Sant’Andreas e più aumentano i rischi che arrivi il temuto “Big One”.

 

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