La proposta di cancellazione del debito detenuto dalla Banca Centrale Europea, avanzata lo scorso febbraio da più di cento economisti di tredici paesi, per reperire risorse in un momento di grande difficoltà, ha innescato un acceso dibattito che ha obbligato la presidente della BCE, Christine Lagarde, a prendere una decisa posizione che escludesse questa eventualità.

Nella memoria collettiva, la possibilità che uno stato sovrano non ottemperi ai propri obblighi di rimborsare il debito, riconduce ad eventi che hanno pesantemente colpito i risparmiatori, come la ristrutturazione della Grecia del 2012 o il default dell’Argentina dell’ormai lontano 2001. Va subito detto che non vi è alcuna connessione logica tra gli eventi; la richiesta rivolta alla BCE riguarda solo la rinuncia a chiedere il rimborso dei titoli governativi detenuti, ma non coinvolge in alcun modo il settore privato e i risparmiatori.

L’ipotesi, seppur tecnicamente praticabile, risulta giuridicamente e politicamente impossibile. L’articolo 123 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea vieta espressamente alla BCE di finanziare gli stati dell’Unione, tant’è che il piano di acquisto del debito - il c.d. Quantitaive Easing - che l’Istituto Centrale attua dal 2015, viene giustificato solo dalla necessità di preservare la funzionalità dei mercati ed evitare la deflazione. Vero’ è però che ad oggi la BCE, tramite le banche centrali nazionali, detiene nel proprio bilancio oltre un quarto di tutto il debito europeo, per un ammontare prossimo a 2800 miliardi di euro.  L’attuale piano di acquisti, del valore di 1850 miliardi di euro, è destinato a durare fino al marzo 2022 e molti pensano già ad una sua possibile estensione.

Anche nel caso l’Istituto Centrale decidesse di interrompere l’azione, sarà molto difficile, se non impossibile che possa intraprendere la vendita dei titoli detenuti in portafoglio. Gli effetti sarebbero catastrofici e andrebbero ad annullare tutti gli sforzi finora fatti: la riduzione di base monetaria che ne deriverebbe rischierebbe di riportare l’economia europea in deflazione, mentre i tassi di interesse salirebbero e il costo di finanziamento per gli stati aumenterebbe, aggravando ulteriormente le difficoltà economiche provocate dalla pandemia.

Dal punto di vista pratico va notato poi come non vi sia molta differenza tra l’effettiva cancellazione del debito e il mantenimento dello stesso in bilancio fino alla maturità considerando che, con ogni probabilità, gli acquisti dei titoli in scadenza verranno rinnovati.  Il debito detenuto dalla BCE non grava inoltre sulla spesa per interessi, dato che questi vengono annualmente restituiti ai governi sotto forma di dividendi.  A titolo di esempio basti pensare come, nel caso dell’Italia, le nuove emissioni del 2020 abbiano avuto un costo medio per il Tesoro pari allo 0,59%, quasi la metà del costo pagato nel 2018 che era pari all’1.1%. Un’azione prolungata nel tempo di acquisto e mantenimento in bilancio dei titoli del debito pubblico risulta una alternativa efficace rispetto all’ipotesi della  cancellazione,  che rischierebbe non solo di minare la coesione europea ma anche di scatenare una reazione avversa dei mercati, in una fase del ciclo economico che porterà, nel corso dell’anno,  molti  stati europei come Francia, Spagna, Belgio e Portogallo – non solo quindi Italia e Grecia – a oltrepassare il  valore di 100% nel rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Nel corso degli ultimi decenni la globalizzazione e la delocalizzazione dei processi produttivi hanno contribuito a diminuire il costo del lavoro e dei beni industriali, riducendo stabilmente il livello di inflazione e posto le basi perché le Banche Centrali potessero stampare aggressivamente moneta, senza causare una crescita dei prezzi.

Cosa dobbiamo quindi attenderci per il futuro? Innanzitutto che i rendimenti obbligazionari continuino a rimanere estremamente ridotti per un lungo periodo. Nonostante l’alto livello di indebitamento, se verrà mantenuta la coesione politica all’interno dell’Unione Europea, il differenziale di rendimento dei nostri titoli di stato verso i bundes tedeschi ha la possibilità di ridursi ulteriormente e tornare sui valori antecedenti la crisi del 2008, quando i BTP decennali avevano uno spread verso i titoli tedeschi inferiore all’1%, come riportato nel grafico sottostante. Questo movimento favorirebbe non solo i risparmiatori italiani, che beneficerebbero di un incremento di valore delle obbligazioni detenute in portafoglio, ma anche la competitività delle nostre imprese che vedrebbero ridursi lo svantaggio a livello europeo causato dai maggiori costi di finanziamento.

 

L’andamento dello Spread BTP-Bund decennale:



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