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Volge al termine il cammino intrapreso da Varesefocus tra le leggende del territorio legate ai laghi. In questo itinerario conclusivo la penna dell’europeista convinto Roberto Fassi, e i suoi testi, tratti dal blog “Itinerari nella vecchia Europa”, ci porteranno alla scoperta di un misterioso cavaliere, dell’eremita del Sasso Ballaro, del Lago di Monate e, infine, della leggenda del Sass Preja Buia

Terzo e ultimo appuntamento con le leggende e i miti del continente europeo e, nello specifico, con le storie nate sulla “sponda magra” del Lago Maggiore. Alla scoperta di cavalieri misteriosi, laghi ghiacciati, tristi dame e molto altro ancora.

Il Cavaliere del lago gelato

Sotto il pesante mantello che lo imbacuccava fino alle orecchie, il cavaliere avvertì un brivido prolungato e pungente. Trattenne il cavallo e lo costrinse ad un’andatura più cauta. Quasi al passo. Non era solo un brivido di freddo come tutti gli altri. Non era un brivido di paura che si sommava ai timori di quel viaggio pieno di insidie. Era tutto quel bianco che lo avvolgeva nella notte fonda. Un bianco che pareva senza fine, fatto di nevischio e di umidità, di nebbia lattiginosa e appiccicaticcia. Ma era soprattutto quell’immensità di neve sottilmente ghiacciata che si apriva sotto di lui e sotto gli zoccoli del cavallo. Una neve quieta, immacolata, senza traccia di vita, senza un arbusto, senza rami secchi né sassi né alberi di consolazione. Una neve di tranquilla angoscia. Ma che razza di posto era mai quello? E perché mai quella torma di cavalieri che lo aveva inseguito per miglia e miglia dentro paesi fangosi, in mezzo a boscaglie intricate, su per colline gelate, con accanimento e con voglia assassina, adesso era improvvisamente scomparsa? Eppure, erano tagliagole senza misericordia, al soldo dei pirati che infestavano da anni le coste del Lago Maggiore. Certamente qualcuno, tra la gente dei suoi paesi, aveva tradito e aveva rivelato quella sua missione di messaggero per il Visconti, il duca milanese al quale recava una richiesta d’aiuto contro i corsari che con le loro scorrerie rendevano ormai impossibile l’esistenza nei millenari borghi costieri dell’alto Verbano. Non poteva che essere così, visto che si era trovato addosso quel branco selvaggio appena sbarcato a Luvino e l’inseguimento era continuato senza tregua, con rabbia e con furore, fino al villaggio denominato de Ghivirate. Una corsa disperata per evitare che le loro lame a pagamento gli lacerassero in modo conclusivo i vestiti fradici e le carni sudate.
Gli pareva ancora incomprensibile la vista delle loro sagome evanescenti che si arrestavano all’improvviso nella nebbia e ristagnavano immobili ai bordi di quella piana candida. Lui invece aveva continuato a cavalcare, ma sempre più lento e incerto e stupito su quella neve incorrotta. Scosso dai brividi, stremato dalle emozioni inconsuete. Adesso schiacciato da quella solitudine senza suoni e senza colori. Doveva essere quasi l’alba. La luce flebile penetrò infatti la foschia e gli mostrò un ciuffo di cannette. Un cespuglio con pendagli di ghiaccio. E un contorto salice piangente. E poi un boscaiolo dalle mani pelose che faceva rumore e spezzava rami secchi e che gli disse irriverente: “È un’ora insolita, mio signore, per fare due passi sul lago ghiacciato”.

L’eremita del Sasso Ballaro

Tanto tempo fa (si dice che fosse il 1200) c’era un piccolo naviglio che, all’imbrunire d’una sera d’estate, solcava le acque leggermente increspate del Lago Maggiore, dirigendo la prua verso il porticciolo di Arolo. A poppa stava beatamente seduto messer Alberto de’ Besozzi, nobiluomo e mercante di stoffe. Si godeva il panorama e si stropicciava soddisfatto le mani, in un gesto che gli era consueto dopo una giornata di buoni affari ai mercati della sponda grassa, tra Pallanza e le isole di Stresa. L’approdo era ancora lontano quando, come succede ancor oggi in certi giorni d’estate, un improvviso vento di tempesta cominciò a soffiare impetuoso dai fianchi delle montagne d’occidente.    
Un temporale incattivito si rovesciò senza indugi e senza clemenza sul lago. Alberto de’ Besozzi finì di stropicciarsi le mani e le adoperò svelto per rimanere avvinghiato alle fiancate della barca flagellata da violente ondate e da scrosci di pioggia torrenziale. Naturalmente non erano certo le monete d’oro ricavate dai buoni affari del giorno che lo potevano trarre d’impaccio in quella disperata situazione della sera. E non ci riuscivano nemmeno i due servitori che tentavano invano di riprendere il controllo dell’imbarcazione. Il piccolo naviglio si frantumò contro la sponda magra che in quel tratto era particolarmente ossuta, aspra e inospitale. Il lago in tempesta si accanì a lungo contro le rocce, contro i legni spezzati e contro le miserie degli uomini. Solo un vero e proprio miracolo salvò Alberto de’ Besozzi da quel naufragio aggressivo e senza cuore. Il mercante riuscì a stento ad aggrapparsi a uno di quegli arbusti che resistevano gagliardi, a pelo d’acqua, tra gli anfratti rocciosi. 
Si issò a fatica su uno sperone di roccia meno scivoloso degli altri e scovò un buco protettivo scavato nel tempo dalle acque del lago e messo lì, a disposizione del miracolo in corso. Il naufrago si abbandonò in quella spelonca di salvataggio, sfinito e sanguinante. Quando riprese conoscenza era un uomo malconcio nel corpo, ma rimesso a nuovo nell’anima. Sopravvisse da eremita dedito alla preghiera in quell’antro a picco sul lago e si fece fama di sant’uomo con le genti dei dintorni che gli portavano di che sfamarsi. All’anacoreta Alberto de’ Besozzi, anticamente uomo d’affari dalla bella vita e ora asceta dalle virtù miracolose, si rivolgevano ricchi e poveri nei periodi grami di pestilenza e di carestia. La costa rocciosa del Sasso Ballaro divenne il luogo di una particolare devozione e, quando venne il tempo, gli uomini delle rive vi edificarono una cappella che era, anch’essa, un vero miracolo di equilibrio costruttivo. E considerato che questo era il destino di quei sassi scoscesi, lì attorno si insediò anche una comunità di monaci che diede vita allo spettacolare Eremo di Santa Caterina del Sasso

Chiare acque del Lago di Monate

Tanto tempo fa (si dice che fosse appena cominciato il Medioevo) la bella Motena governava in beltà e saggezza le terre a oriente del Lago Maggiore dove si apriva una verde e vasta conca tra il monte Pelada e le colline dei dintorni. Da lontano il truce sire di Capronno, suo vicino di feudo, ammirava quel paesaggio e, di quando in quando, ammirava pure la bella Motena e si rodeva dentro. L’aveva già chiesta in sposa una decina di volte, ma quella si faceva beffe di lui: una volta aveva il mal di testa, un’altra volta non era la stagione adatta, un’altra volta ancora aveva la luna storta. Il truce sire di Capronno, di anno in anno, si vedeva sfuggire di mano quel verde feudo che gli piaceva tanto e quella bionda castellana che gli piaceva altrettanto. Venne la primavera, una delle tante e venne anche un giovane e aitante cavaliere che aveva tutte le prerogative per attrarre la bella Motena: lei, infatti, se ne invaghì e in men che non si dica se lo sposò mentre il sire di Capronno schiumava di rabbia. Venne poi anche la guerra e tutti i cavalieri del regno ci andarono per difendere le proprie terre e l’onore del re. Motena attese a lungo il ritorno del proprio sposo dalla guerra. Attese fin quando non vide avvicinarsi un lungo corteo di uomini d’arme che attraversava la verde e vasta conca. Alla testa del corteo, vivo, vegeto e sempre più truce, stava il sire di Capronno: su un carro bardato a lutto trascinava il corpo di un cavaliere giovane e aitante ma, ahimè, trafitto a morte da una lunga lancia. “Cose che succedono in guerra”, disse beffardo il sire di Capronno alla bella Motena che aveva riconosciuto il corpo del suo sposo riverso sul carro.
Ogni giorno Motena, che era rimasta bella nonostante il dolore che la affliggeva, si recava al centro della verde conca dove il suo cavaliere era stato sepolto e piangeva disperata fiumi di lacrime. Piangeva, piangeva così intensamente che un giorno anch’ella lasciò quella valle di lacrime e si unì al suo sposo nell’eterno riposo. Furono probabilmente gli spiriti delle acque che, mossi a compassione per quel grande dolore, raccolsero le lacrime della bella castellana e con tutto quel liquido a disposizione formarono un azzurro e tranquillo laghetto nella verde e vasta conca: è il Lago di Monate, le cui acque sono sempre limpide e trasparenti esattamente come tanto tempo fa.

La leggenda del Sass Preja Buia

Tanto tempo fa (si dice che fosse il 200 o il 300 a.C.) c’era un drago che, a detta dei frequentatori di leggende, altro non era se non un pescatore del Lago Maggiore che si era fatto sorprendere in abiti succinti e in atteggiamenti svenevoli a contatto con la dea Venere che già, per sua natura, di abiti ne faceva a meno fin dalla nascita. I due erano stati colti in flagrante su quelle rive dal padre della dea, Giove, il quale, non volendone sapere di avere un genero di basso rango e che magari puzzava di pesce, con un colpo di fulmine l’aveva tramutato in drago. È difficile capire cosa passi per la testa di un drago perché, anziché prendersela con quel suocero irascibile, il drago-pescatore scatenò la sua rabbia schiumante contro i territori del basso Verbano che avevano visto l’inizio e la fine del suo colpevole amore con una dea. Pasciuto di una infernale mistura di erbe, il nuovo mostro vomitò fuoco e fiamme dalla potenza distruttiva straordinaria: le lingue di fuoco ammorbarono e scheletrirono il territorio circostante con il tipico effetto di un’esplosione atomica di tot megatoni. Le genti di quei tempi e di quei posti, ignare delle unità di misura con cui si calcola l’energia emanata da uno scoppio atomico, pensarono solo a trovare scampo dinanzi all’inesorabile avanzare di quei fumi mortali. Nel massiccio esodo molti sciagurati ci rimisero la pelle. In cerca di una via di fuga c’era anche la povera moglie di quel pescatore libertino. La donna portava sulle spalle il figlio minore e trascinava a fatica il maggiore. Stremata, stretta in una morsa di veleni letali, cadde riversa nella boscaglia cercando di fare scudo, con il suo corpo e le sue vesti, ai due ragazzi innocenti, ormai moribondi. Così la trovarono gli indigeni superstiti quando ripopolarono le antiche lande devastate. Anzi, proprio di fronte ai loro occhi, quel simbolo dell’amore materno si trasformò, per un portentoso sortilegio, in un’enorme chioccia di pietra dorata che proteggeva i propri piccoli. Un magico, longevo monumento alla mamma. 

“Itinerario leggendario sulle rive del Verbano” è uno dei viaggi, corredati di testi e fotografie, consultabili gratuitamente sul sito www.viaggivecchiaeuropa.wordpress.com

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