Itinerario-leggendario-sulle-rive-del-Verbano

Parte il viaggio di Varesefocus tra le leggende del territorio, in particolare quelle legate ai laghi. Questa è la prima di una serie di puntate, i cui testi sono tratti dal blog “Itinerari nella vecchia Europa” edito da Roberto Fassi, europeista convinto che per “un desiderio di conoscenza reciproca tanto piacevole quanto necessario” ha deciso di farsi portavoce non solo delle mitologie delle terre lacustri del Varesotto, ma anche di molti altri itinerari. Tutti sparsi per il continente europeo

Dalla Svezia alla Sicilia, dalla Romania al Portogallo, l’Europa pullula di millenarie leggende che si sono tramandate nei secoli e che si raccontano ancora nel terzo Millennio come curiosità turistico-letterarie o come simboli narrativi di località misteriose e affascinanti. La leggenda è una tipologia di racconto che si differenzia dalla favola, dalla fiaba o dall’aneddoto. La leggenda, nella sua specificità, è narrazione che, di frequente, trova fondamento in luoghi ben identificati (un lago, un castello, una grotta, un borgo medioevale) e spesso ne racconta a modo suo l’origine o l’evoluzione, in un mix di fantasia e realtà. Nell’Europa delle leggende ci sono territori particolarmente dotati di racconti come Scozia, Transilvania, Bretagna, Renania e Irlanda. La Lombardia, in particolare la sponda orientale (riva magra) del Lago Maggiore, l’antico Verbanus dei Romani, da questo punto di vista, è forse meno celebre, ma anche qui il bagaglio leggendario non manca. Il motivo è molto semplice: è qui, secondo la leggenda, che c’è la nostra origine. Ecco le prime tre storie della cosiddetta “sponda magra”.

La nascita del Lago Delio

Tanto tempo fa (si dice che fosse più o meno l’anno Mille) c’era un minuscolo paese alpestre posto nella conca tra il monte Borgna e il monte Cadrigna. Questa regione prealpina dell’alto Verbano lombardo era sottoposta al dominio del feudatario di Maccagno, vassallo più o meno fedele del superbo imperatore Ottone, detto il grande e il grosso. Se l’imperatore era superbo, grande e grosso, il feudatario, suo vassallo, non poteva essere da meno e poiché per nascita non era grande e neppure grosso, cercava almeno di essere superbo e cattivo. E dai suoi sudditi pretendeva cieca obbedienza, lavoro duro e una bella scorta giornaliera di pesce fresco di lago e di frutti maturi delle valli prealpine. I pescatori e i servi della gleba si dannavano l’anima e il corpo per soddisfare i bisogni del loro signore. Capitò però che un giovane contadino che abitava nel piccolo paese, lassù nella conca fra i monti, si ostinasse a tenere per sé e per la sua famiglia dei bei canestri ricolmi di castagne e di noci di cui il feudatario di Maccagno era particolarmente ghiotto.
Se il fatto di non pagare i tributi in natura poteva essere già considerato un grave reato, privare addirittura il signore di Maccagno della sua prediletta torta di castagne al miele era avvenimento che lo faceva montare su tutte le furie. Il giovane contadino fu subito messo a morte e la sua famiglia (una vedova e tre figliuoli in tenera età) fu messa al bando. Intimoriti, tutti gli abitanti del paese dimenticarono perfino il nome di quella donna e dei suoi tre figli che vissero a lungo di stenti, tenuti ai margini di quella comunità indaffarata e troppo ubbidiente. Quando la vedova e i bambini erano ormai pelle e ossa, un pellegrino, sbucato da chissà dove, li soccorse, li rifocillò e, prima dell’arrivo degli armigeri del feudatario, li condusse via con sé per le strade del destino. Quello stesso Destino che, indossata la lettera maiuscola che gli compete nei momenti solenni, proprio da quella notte cominciò a rovesciare una valanga d’acqua su quel villaggio di miserabili. Un nubifragio in piena regola, forse un diluvio minore, ma sempre un bel diluvio che sommerse quel borgo e i suoi abitanti.
Quando il sole, dopo settimane di piogge torrenziali, tornò a splendere su quella conca tra i monti dell’Alto Verbano, del minuscolo paese non c’era più traccia e il lago Delio (piccolo bacino lacustre di origine glaciale: due dighe di sbarramento, costruite in versione definitiva negli anni ‘60 del XX secolo, l’hanno reso un invaso artificiale che alimenta la sottostante centrale idroelettrica di Roncovalgrande n.d.r.) era bell’e fatto.

I mercenari della Val Veddasca

Tanto tempo fa (si dice che fosse il 1600) c’erano quattro mercenari al soldo del re di Spagna che avevano razziato a lungo nelle cascine della pianura. E poi avevano fatto man bassa anche nelle locande lungo i navigli di Milano. A quel tempo, infatti, non c’era pace per le genti di Lombardia: manipoli di soldati spietati e abbruttiti scorrazzavano per le terre del ducato, da sempre conteso tra le corone di Francia e di Spagna. I quattro mercenari avevano poi disertato dalle fila dell’esercito di Sua Maestà cattolicissima e, con un ricco bottino nelle tasche e gli sbirri spagnoli alle calcagna, si erano dati alla macchia. Nel caso specifico la macchia erano i boschi sulle pendici dei monti che si incontravano inerpicandosi verso le terre degli Svizzeri e dei Lanzichenecchi.
In fila longobarda (la fila indiana era un tipo di camminata ancora sconosciuta da queste parti), i quattro si inoltrarono in una valle angusta percorsa da un torrente dalle acque limpide e nervose. Poiché non erano ancora certi di aver seminato gli sgherri del re che li cercavano per mari e per monti, svoltarono in una gola ancora più stretta e s’arrampicarono con le unghie e con i denti su per un’erta scoscesa e quasi invalicabile. Quando giunsero sfiniti e con le vesti stracciate in un prato dove la pendenza era più lieve, il Riccio col fiato corto disse: “Beh, mi sembra il posto adatto per metter su casa”. “Mica male come idea!” convenne ansimando lo Svelto. “E per 
legna e mattoni come facciamo?” chiese sbuffando lo Smilzo. “Adottiamo le maniere spicce!” concluse boccheggiando il Colto. E rubando con la prepotenza e la furbizia che erano loro consuete, costruirono quattro baite belle solide e soprattutto lontane dal resto del mondo.
“Beh, adesso mi sembra il posto adatto per metter su famiglia...” aggiunse il Riccio che la vita di montagna aveva reso un po’ meno spinoso. E poiché, dall’altra parte della vallata, nel pacifico paese di Biegno, le fanciulle di montagna crescevano belle floride, i quattro adottarono le solite maniere gentili e rapirono quattro ragazze in fiore. Fu così che nacque Monteviasco in val Veddasca che, fino agli ultimi decenni del XX secolo, era l’unico borgo della Lombardia nord-ovest che si poteva raggiungere solo percorrendo un’impervia mulattiera di 1.400 scalini.

Le chiese gemelle di Valtravaglia

Tanto tempo fa (quanto tempo fa esattamente non si sa) s’udivano rumori di piccone e scalpello che si rincorrevano di continuo per l’alta Valtravaglia. Due instancabili manovali erano all’opera: costruivano due piccoli oratori affacciati sulla valle. Sulla roccia di Montegrino, l’artigiano al lavoro era San Martino in persona che, a quel tempo, oltre a brandire lo spadone per tagliare il proprio mantello da donare ai poveri, era occupato a maneggiare badile e piccone seguendo il manuale del perfetto muratore. Proprio sul culmine del monte di fronte, invece, il carpentiere che si dannava l’anima con un lavoro frenetico e certosino era nientemeno che Lucifero. Come mai si fosse messo in testa (oltre alle abituali corna) di edificare anche lui una chiesetta non è dato sapere. Erano forse vecchie questioni di invidia universale. O forse semplici questioni di supremazia locale. Fatto sta che il diavolo rivaleggiava con San Martino per innalzare la chiesa più bella della valle, sceglieva con cura la qualità delle pietre da costruzione e badava perfino alle raffinatezze dell’architettura. I due, tra una mano di calce e l’altra, si tenevano d’occhio, ma, nonostante tutto, non si guardavano in cagnesco. Anzi, almeno in apparenza, non mancavano di scambiarsi dei buoni consigli e perfino di prestarsi gli attrezzi. Fin quando una mattina Lucifero, che era alle prese con le rifiniture, chiese a gran voce l’enorme martello che San Martino usava per sgrezzare i grandi massi di pietra da costruzione. “Come desidera Vostra Signoria!” rispose il santo che ne sapeva una più del diavolo. E da olimpionico qual era, gli lanciò l’attrezzo richiesto da una parte all’altra della valle, badando bene a compiere nel frattempo uno di quei miracoli per cui andava famoso.
Il martello, infatti, durante il volo parabolico, assunse le sembianze di una croce che roteava nel cielo.
E il povero diavolo, che da millenni non sopporta anche la sola vista di quel simbolo cristiano, se la diede a gambe levate, fuggendo nelle caverne del monte e prendendo rapido la via di casa. San Martino, con fare soddisfatto, terminò con cura l’oratorio di Montegrino e poi attraversò la valle per andare a rifinire con due mani di malta anche la chiesa di fronte che era ormai quasi completata.
Le genti di Valtravaglia ebbero così a disposizione due piccoli oratori affacciati sulla vallata, uno dirimpetto all’altro. Li dedicarono naturalmente a quell’atleta di San Martino e, già che c’erano, misero il suo nome pure al monte sul quale, tanto tempo fa, il diavolo si vantava di essere pure lui un prodigioso architetto.  

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“Itinerario leggendario sulle rive del Verbano” è uno dei viaggi, corredati di testi e fotografie, consultabili gratuitamente sul sito www.viaggivecchiaeuropa.wordpress.com



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