A Cittiglio sorge una delle più antiche chiese dedicate al Santo protettore della gola, da dove stanno emergendo, a seguito di alcuni scavi, terminati la scorsa estate, reperti archeologici di grande valore scientifico, utili anche a ricostruire la storia di questa zona del Varesotto

E' un laboratorio a cielo aperto la piccola chiesa di San Biagio, il più antico edificio di culto di Cittiglio e uno dei più vetusti dell’intera Valcuvia, con i suoi 1.200 anni di vita e le profonde trasformazioni subite nel corso dei secoli. Posta su una collinetta, a circa 200 metri dalla stazione e dall’ospedale, nell’omonima frazione, è un prezioso indicatore del succedersi di genti e abitudini, degli uomini che hanno mutato negli anni il suo aspetto per adattarlo alle nuove esigenze di vita. Una chiesa oggetto di campagne di scavo − l’ultima è terminata lo scorso mese di luglio − che hanno permesso il ritrovamento di interessanti reperti, tuttora al vaglio degli esperti dell’Università dell’Insubria, ma anche di studi in loco, svolti dai tirocinanti del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze biologiche dell’ateneo varesino, coordinati dalle dottoresse Marta Licata, tecnico di laboratorio del Centro ricerche di Osteoarcheologia e Paleopatologia, e Chiara Tesi, che svolge il dottorato di ricerca all’Università dell’Insubria e si occupa dello studio antropologico dei resti ossei rinvenuti nell’antica area cimiteriale della chiesetta di San Biagio, oggi occupata dal sagrato.

Di proprietà della parrocchia San Giulio Prete di Cittiglio, la chiesa dedicata al protettore della gola è tuttora consacrata e aperta al culto, anche se ultimamente non è più officiato per i lavori di scavo in corso sul sagrato, ma fino al XIX secolo, dopo che la legge abolì i “benefici semplici”, era appartenuta alla nobile famiglia Besozzi, che ne fu responsabile per ben trecento anni. Dagli studi più recenti, l’edificio risulta di origine altomedievale, come testimonierebbe l’imposta dell’antica abside della chiesa primitiva, riconducibile all’epoca Longobarda, mentre il campanile, all’angolo sudorientale della chiesa, è alto 12 metri e si caratterizza per le tre bifore. La chiesa è costituita da un’aula unica (di 5,50 per 14,80 metri circa), a cui si accede da una sola porta centrale posta sul lato est; due sono le finestre, ed entrambe si aprono sul lato nord dell’edificio. Il tetto, a due falde, è realizzato in coppi ed è sorretto da quattro capriate in legno, visibili dall’interno dell’edificio e che caratterizzano tutto l’ambiente.

“I documenti più antichi, oggi conosciuti, che ci parlano di questo luogo di culto sono due atti notarili rogati l’11 giugno 1235 ed oggi conservati all’archivio di Stato di Milano e provengono da quello della chiesa di San Lorenzo in Cuvio”

Durante il XVII secolo, San Biagio ha mutato il suo originale orientamento, infatti, l’altare, che fino ad allora era rivolto ad est, è stato ricollocato sul lato ovest del fabbricato, ove si trova tuttora. L’abside affrescato, che racchiudeva il primitivo altare medioevale, è stato demolito per lasciar posto alla nuova facciata della chiesa con la porta d’accesso che si apre sul sagrato che un tempo era il cimitero. L’antico altare della chiesa medioevale, invece, è ancora al suo posto, perché a suo tempo venne riutilizzato come base di fondazione dell’attuale facciata, mentre l’altare maggiore è addossato alla parete ovest e risale al XVII secolo, realizzato contestualmente al cambio di orientamento della chiesa.

“I documenti più antichi, oggi conosciuti, che ci parlano di questo luogo di culto sono due atti notarili rogati l’11 giugno 1235 ed oggi conservati all’archivio di Stato di Milano e provengono da quello della chiesa di San Lorenzo in Cuvio” spiega l’ingegnere Antonio Cellina, presidente del Gruppo Amici di San Biagio, associazione nata nel 1988 che ha finanziato la prima tranche di scavi, avvenuti tra il 2006 e il 2009. “Dall’analisi di tali scritti si desume che in quell’anno (1235) la chiesa di San Biagio era esistente; era dedicata ai Santi Biagio Vescovo e Andrea apostolo e, soprattutto, si viene a sapere che la chiesa era edificata ‘in Castro de Cittilio’, cioè all’interno di una fortificazione, un castello, la cui esistenza e funzione si è persa col tempo. Non si conosce né il fondatore, né l’anno di fondazione, ma le deduzioni archeologiche fanno ritenere che la primitiva chiesa di San Biagio nacque come chiesa castrense, cioè come cappella privata a servizio delle esigenze del castello e della famiglia che ne deteneva il feudo. All’inizio, probabilmente l’importante e ricca famiglia lombarda dei De Cittilio che venne nel tempo sostituita dapprima con i De Morsiolo e poi dai Besozzi”. 

La prima parte degli scavi, sotto la supervisione della Soprintendenza Archeologica della Lombardia e della dottoressa Jolanda Lorenzi, era stata affidata alla Società lombarda di Archeologia diretta da Roberto Mella Pariani e aveva portato alla luce una serie di tombe e di elementi pittorici e murari all’interno della chiesa, utili per individuare le diverse fasi costruttive della chiesetta, a partire dal periodo preromanico e romanico. Sono stati infatti rinvenuti tre strati di pavimenti e strutture architettoniche a testimonianza di un preesistente edificio più piccolo di quello attuale e i resti di una facciata, demolita in epoca medievale. Oltre a ciò, sono venuti alla luce interessanti affreschi: il volto del profeta Elia sopra l’attuale porta d’ingresso, sulla parete nord un affresco con un Santo Vescovo non identificato, entrambi risalenti al tardo Medioevo, poi un piccolo drago e, sulla parete sud, alla base del campanile e risalente all’anno 1000, la raffigurazione di una chimera, animale mitologico con tre teste, di leone, serpente e capra.

Un finanziamento della Fondazione Comunitaria per il Varesotto e in parte della Regione, ha fatto sì che i lavori di scavo riprendessero nel 2016, per terminare la scorsa estate e interessassero il sagrato, un tempo utilizzato come cimitero

“Nella seconda metà dell’XI secolo, alla facciata d’allora viene addossato un grosso corpo di fabbrica in muratura e pietra, di larghezza uguale a quello dell’aula romanica che dovrebbe corrispondere ad un atrio a destinazione funeraria, verosimilmente della famiglia che commissionò la cappella. In questo spazio sono riemerse, grazie al lavoro dell’archeologo, oltre venti sepolture sia di adulti che di bambini concentrate nella zona che oggi è antistante il presbiterio. Le sepolture sono visibili grazie a un pavimento di cristallo” dice Cellina.
Tutti i reperti ossei sono stati inviati all’Università dell’Insubria, esaminati dallo staff del professor Giuseppe Armocida, tra i promotori delle campagne di scavo, e dalla dottoressa Licata, ma oltre a questi gli archeologi hanno trovato tredici monete di bronzo, rame e argento, di un’epoca tra il XII e la fine del XVI secolo, oltre a ciotole, coltelli, frammenti di tessuto, fibbie e borchie. La pavimentazione della chiesa è stata completamente rifatta nel 2015, con mattonelle in cotto, i “medoni”, tolti durante la campagna di scavo o recuperati da vecchi edifici. Un finanziamento della Fondazione Comunitaria per il Varesotto e in parte della Regione, ha fatto sì che i lavori di scavo riprendessero nel 2016, per terminare la scorsa estate e interessassero il sagrato, un tempo utilizzato come cimitero. 

“Durante gli ultimi interventi è stata recuperata parte dell’ossario comune dell’area cimiteriale esterna, frutto di una ‘bonifica funeraria’ compiuta in periodo Medievale, con lo svuotamento delle tombe e l’accumulo delle ossa in una fossa comune. I reperti sono stati portati all’interno della chiesa e sono al vaglio degli studenti del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita. Il materiale è molto ben conservato e permette di acquisire una serie di dati sugli scheletri e dedurne la vita media, la mortalità infantile nei vari periodi storici, oltre a farci capire le patologie che colpivano allora le persone, dall’artrosi alla carie, e la loro statura, più ridotta rispetto a quella media di oggi” afferma la dottoressa Licata. “È necessario però che gli scavi riprendano, perché il loro scopo è anche quello di restituire i reperti alla comunità e rendere il sito di valore museale, accogliendolo all’interno di un circuito. Per il momento il valore aggiunto è lo studio delle ossa da parte dei nostri tirocinanti, con i reperti puliti, restaurati e catalogati e, nel caso di patologie riscontrate sugli scheletri, inviati all’università per ulteriori indagini” conclude la ricercatrice. 



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