Al Castello di Masnago di Varese una rassegna sul legame tra filantropia e arte che ha contraddistinto la storia del territorio tra Ottocento e Novecento. Un racconto per immagini in cui immergersi, in attesa della riapertura dei musei, attraverso il web 

Il Castello di Masnago, guidato da Daniele Cassinelli, ospita dallo scorso ottobre la mostra Nel salotto del collezionista. Arte e mecenatismo tra otto e Novecento, promossa da Fondazione Cariplo, Fondazione Comunitaria del Varesotto e Comune di Varese. Curata dall’ottimo Sergio Rebora la rassegna offre la vista di 70 dipinti, sculture e oggetti d’arte decorativa. Molti i capolavori, in parte provenienti da Fondazione Cariplo (nell’ambito dei progetti culturali-espositivi Artgate e Open), in parte dalle collezioni civiche di Varese, infine da collezioni private e importanti musei lombardi. Ma, soprattutto, vuole evidenziare quel filone di filantropia e arte, sostenuto e rappresentato anche oggi dalle due Fondazioni, che ha contraddistinto particolarmente il territorio tra metà '800 e inizio '900. I protagonisti della narrazione sono i rappresentanti dell’aristocrazia e soprattutto della borghesia, a cavallo tra un secolo e l’altro. Varese, terra di confine tra l’opulenta Svizzera e il milanese, favorita dal clima e dalla sua posizione intermedia, conobbe a quel tempo una fioritura di bellezza artistica e architettonica. È proprio di questa bellezza che ci parla la mostra di Masnago. L’insistente presenza del Covid ha ne rimandato purtroppo l’apertura dalla scorsa primavera all’autunno. Ma di nuovo, a novembre, si sono dovute chiudere le porte al riaffacciarsi dell’epidemia.

Nella speranza che, zone rosse permettendo, si possa presto tornare a visitarla di persona, ve la raccontiamo per ora noi, rimandandovi comunque alla landing page della mostra dove sono disponibili dei video per visite virtuali, a cui accedere anche attraverso i canali social della Fondazione Comunitaria del Varesotto (Facebook, LinkedIn, YouTube). Partiamo dai protagonisti, soprattutto le famiglie dei Ponti, noti industriali gallaratesi del tessile, dei Borghi, dei Cantoni e dei Turati, impegnati in analogo settore, dei banchieri Taccioli, accanto ai Maino, ai Tallachini, agli Armellini, ai duchi Litta Visconti Arese. A loro si deve l’amore verso l’arte e gli artisti, ingaggiati per ornare dimore e ritrarre i volti dei familiari e un nuovo modo di vivere, esteso a tutti. Merito di un’illuminata classe imprenditoriale che favoriva, accanto al progresso delle tecniche produttive, migliori condizioni per i lavoratori e sviluppo sociale. Esempi di fabbriche più luminose e aerate, nate in quel periodo, con abitazioni vicine per le maestranze, sono ancora presenti nel territorio lombardo. Come le dimore private edificate allora sui pendii delle colline, accanto alle preesistenti case di delizia degli aristocratici milanesi: valga per tutti l’esempio dei Ponti, signori anche del lago di Varese, dopo la supremazia dei Litta Visconti Arese, gli aristocratici milanesi un tempo proprietari dell’attuale Villa Panza. 

La famiglia Ponti acquistò i diritti di pesca dai Litta, proprio per trasmetterli ai pescatori del lago. Edificò inoltre ville imponenti sulla collina di Biumo Superiore e vi chiamò a lavorare l’architetto Balzaretto e il pittore Appiani, noto ritrattista. Quasi emblema della mostra è il quadro di Carlo Gerosa, realizzato nel 1874 circa, che propone il ritratto della famiglia di imprenditori varesini Tallachini. Tra essi, notano i curatori, è presente Luigia Pascal, nota arpista, moglie dell’ingegnere Giovanni Battista Tallachini. Gerosa, frequentatore della casa di Alessandro Manzoni era ritrattista ufficiale dello scrittore. Segno che il mondo dell’imprenditoria e quello dei salotti colti si frequentano e insieme nascono progetti di bellezza e sviluppo. 

Ma parliamo dei capolavori, che non sono pochi. Tra gli altri spiccano due opere dei musei civici varesini: per prima "La Tamar di Giuda" del 1847, impareggiabile capolavoro di Hayez, donata dall’imprenditore Chang Sai Vita ai musei cittadini di Varese nel ventesimo secolo. Era industriale del tessile di radici ebraico-cinesi. Sai Vita finanziò anche la costruzione della cupola dell’osservatorio del Campo dei Fiori, nel 1971. Seconda per importanza è la “Bambina con fiori”, di Giacomo Balla, del 1902, donata da Amelia Bolchini De Grandi, nel 1965. Di nota famiglia di avvocati, moglie del capomastro Luigi De Grandi, Amelia donò la sua ricca collezione d’arte alla città. Il largo cappello di paglia, l’abito di estrema leggerezza, forse in tulle e il mazzo di fiori parlano di estate e di sole. Ma i colori sono tenui, come il volto e i grandi occhi dell’esile creatura, un po’ impacciata nel gesto. Suggeriscono uno straniamento che s’apparenta a un‘altra bella opera “Margherita Villa bambina” di Daniele Ranzoni, del 1873 circa, donata da un medico Milanese dell’Ospedale Maggiore di Milano.

Non si perda la sala di sculture dell’artista e collezionista milanese Ludovico Pogliaghi, sacromontino naturalizzato - vi abbiamo raccontato il suo museo nel numero di settembre (5/2020) di Varesefocus (pag. 68) - né i meravigliosi marmi dello scultore Wildt, provenienti dal Museo della Società gallaratese per gli Studi Patri, tra cui il ritratto di Carolina Trotti Maino, madre degli imprenditori Alessandro e Antonio Maino, donato nel 1972. Nella sala grande, al piano nobile del Castello, si notano gli 8 vetri dipinti di Giuseppe Bertini, provenienti dal Poldi Pezzoli. Riproducono alcune fotografie realizzate, su bozzetti di Hayez, da Giuseppe Elena, in occasione di un evento mondano del 1828, il ballo del Romanticismo, il più importante della restaurazione a Milano. Si tenne nella dimora di un conte ungherese e rimase nella memoria di molti. Sipario di un mondo che stava cambiando. 

 

 



Articolo precedente Articolo successivo
Edit