Sono passati ormai quasi sette anni dal giugno 2014, quando la Banca Centrale Europea, sotto la presidenza di Mario Draghi, decise di abbassare la remunerazione sui depositi delle banche presso l’Istituto Centrale a -0.1%, avviando un processo che ha visto i tassi di interesse diventare negativi e i rendimenti obbligazionari ridursi a livelli di minimo storico. La ricerca di un rendimento positivo è diventata per l’investitore obbligazionario un’impresa sempre più’ ardua. Nel mondo, a fine 2020, titoli di debito per oltre 15.000 miliardi di euro hanno espresso rendimenti negativi. In Europa i titoli governativi tedeschi fino alle maturità ventennali, così come i titoli del Tesoro italiani con scadenza inferiore a 5 anni trattano a rendimento negativo. In questa nuova realtà, la liquidità rappresenta un costo. Molte banche, soprattutto nei paesi nordici dove i tassi di interesse sono ancor più ridotti, hanno cominciato a far pagare ai propri clienti i saldi attivi dei conti correnti invece di remunerarli, mentre un crescente numero di società, oltre che di governi, riesce a finanziarsi sui mercati obbligazionari restituendo alla scadenza all’investitore un capitale inferiore a quello preso a prestito.

Come è potuto succedere tutto questo? Da quasi 15 anni siamo precipitati nel mondo della repressione finanziaria. Il temine fu coniato nel lontano 1973 dall’economista americano Edward Shaw, ma ha trovato piena applicazione a partire dal 2007 quando la recessione mondiale, innescata dalla crisi dei debiti subprime negli Stati Uniti, ha portato il debito pubblico dei paesi più sviluppati a raggiungere livelli record.  Con il termine di repressione finanziaria si fa riferimento alla politica attuata dalle Banche Centrali di mantenere i tassi di interesse nominali su valori inferiori ai livelli di inflazione, in modo da obbligare i risparmiatori ad investire e prendere dei rischi per evitare che il proprio capitale si svaluti nel tempo. L’obbiettivo è non solo di favorire la ripresa economica, ma anche di ridurre il valore del debito degli stati attraverso la crescita dell’inflazione e la diminuzione della spesa per interessi. La repressione finanziaria costituisce una vera e propria tassa sul risparmio.  Nelle intenzioni delle Banche Centrali tutto questo doveva rappresentare un episodio temporaneo per uscire da una situazione di emergenza, ma si è invece trasformato in una condizione permanente. La politica dei tassi negativi non ha avuto successo nel far riprendere l’inflazione, in presenza di una crescita economica sempre molto ridotta. La BCE ha continuato ad incrementare la pressione, acquistando quantità crescenti di titoli di stato ed obbligazioni societarie, senza riuscire a raggiungere l’obbiettivo preposto, di portare l’inflazione Europea su livelli prossimi al 2%. Dall’altro lato il debito degli Stati, invece di ridursi, ha continuato progressivamente a crescere. La pandemia ha contribuito a peggiorare una situazione già difficile.  A fine 2021 si prevede che il rapporto tra debito e PIL negli Stati Uniti arrivi al 110%, mentre grandi paesi come la Francia, secondo le previsioni della Commissione Europea, raggiungeranno un rapporto debito/PIL del 117% e l’Italia del 159%. 

Questi numeri sono preoccupanti ed in alcuni hanno suscitato il timore che alla fine, una crescita improvvisa ed incontrollata dell’inflazione e dei tassi di interesse, potrebbe essere innescata non tanto dalla crescita economica quanto dal timore dei mercati che venga perseguita una politica di monetizzazione del debito. Gli acquisti di titoli di stato operati dalle Banche Centrali sono stati massicci. A titolo di esempio basti pensare che nel 2020 quasi il totale netto delle emissioni del Tesoro italiano è stato comprato dalla BCE, che è arrivata a detenere circa il 20% del nostro debito pubblico. La recente salita dei prezzi del petrolio e delle materie prime, innescato dalle aspettative di ripresa mondiale per il 2021, è stato da molti interpretato come un primo segnale di un ritorno dell’inflazione che, alla fine, potrebbe costringere le Banche Centrali a rialzare i tassi. 

Dobbiamo quindi attenderci un significativo rialzo dei rendimenti obbligazionari? In realtà è probabile che dovremo aspettare ancora a lungo per vedere una risalita dei tassi di interesse.  Anche se si evidenziassero temporanei incrementi dell’inflazione, le Banche Centrali continueranno a mantenere i tassi nominali su livelli molto bassi per sostenere la ripresa economica. Non a caso, nella ultima riunione dell’11 Marzo, la BCE ha comunicato la decisione di accelerare ulteriormente nel piano di acquisto di titoli di stato. Quando potremmo realisticamente pensare di rivedere i tassi ufficiali europei su valori positivi?  Un’idea ce la può fornire l’andamento dei prezzi sul mercato monetario, che in genere è un buon previsore degli andamenti futuri. Come possiamo vedere nel grafico sottostante, l’attuale livello dei rendimenti a termine sul mercato interbancario sconta un ritorno a livelli positivi non prima del 2026.  A meno quindi di sorprese, il nuovo mondo è destinato a durare ancora a lungo, ma questo non significa che non rappresenti anche un’opportunità. 

I tassi bassi e l’ampia liquidità hanno favorito la crescita dei mercati azionari, mentre le obbligazioni a lungo termine hanno beneficiato della riduzione dei rendimenti, realizzando una forte incremento del loro valore. Il costo del denaro a prezzo molto basso e le politiche di sostegno al credito della BCE hanno sostenuto il finanziamento delle imprese in un periodo difficile per la crescita economica. La repressione finanziaria rappresenta quindi una realtà con cui dovremo continuare a confrontarci ma che è necessario comprendere per poter orientare le nostre decisioni di investimento.



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