Cos’è un processo innovativo? La creazione di qualcosa di nuovo, che implica, allo stesso tempo, la distruzione o l’abbandono di qualcosa preesistente. A partire dalla fine dell’800, l’Italia ha affrontato diverse fasi di trasformazione tecnologica, le cosiddette Rivoluzioni Industriali, che hanno avuto grandi ripercussioni anche e soprattutto in termini economico-sociali. E ora che siamo alle porte di una Rivoluzione 4.0, portata avanti dall’evoluzione delle tecnologie di rete e dall’automazione “intelligente”, cosa dobbiamo aspettarci? Ha provato a dare una risposta a questa domanda Raffaella Manzini, Professore Ordinario di Ingegneria Economico-Gestionale e Prorettore alla Ricerca della LIUC – Università Cattaneo durante l’incontro “Creazione-Distruzione: i processi dell’innovazione tecnologica”. “Il timore è che le macchine prendano il posto dell’uomo, sempre più messo in secondo piano dalle smart technologies. Ma come mai tutta questa diffidenza se il passato ci dice che, tutto sommato, le Rivoluzioni Industriali si sono rivelate positive specialmente per le persone? In che modo questo nuovo grande cambiamento può essere visto come un processo innovativo?”. In questo caso, precisa Manzini, le nuove tecnologie poste sul piatto dall’Industry 4.0 sono molteplici, dunque non esiste un’unica modalità di approccio a questo cambiamento.

L’innovazione è un fenomeno endogeno ad un sistema socio-economico, ovvero non viene calata dall’alto da un soggetto esterno ma è generata proprio dal sistema stesso

“Senza una trasformazione di competenze e profili professionali non si afferma nessuna rivoluzione. Come devono cambiare quindi le persone per poter lavorare al fianco di tecnologie avanzate come i robot collaborativi? Un operatore passerà da essere solamente un controllore o un esecutore, all’essere in grado di relazionarsi con la macchina diventando il suo istruttore”. Come a dire che ogni processo innovativo, per quanto spinto e automatizzato possa apparire, è comunque frutto dell’ingegno umano. “L’innovazione è un fenomeno endogeno ad un sistema socio-economico, ovvero non viene calata dall’alto da un soggetto esterno ma è generata proprio dal sistema stesso e dalle persone che in esso lavorano”, continua il Prorettore alla Ricerca della LIUC. E in questo quadro, quale ruolo ricopre l’impresa? “È nelle aziende che le idee si trasformano in innovazione, ossia le invenzioni prendono forma e diventano nuovi prodotti, processi industriali e servizi lanciati sul mercato. Se l’innovazione sta all’interno dell’impresa, vuol dire che può essere guidata, controllata e monitorata dalle persone – prosegue Raffaella Manzini –. L’impresa trasforma un’idea in un prodotto attraverso le fasi di ingegnerizzazione, prototipazione, definizione dei processi produttivi e poi con lo sforzo di commercializzazione. Senza il ruolo dell’impresa, l’innovazione resta invenzione, ossia nella testa delle persone o nei brevetti ma non diventa disponibile a tutta la comunità. Insomma, possiamo ridurre il nostro livello di diffidenza dato che si tratta di un processo creato da noi”.

Ma se timore e diffidenza insistono a non lasciare spazio a opportunità e positività, gli esempi del passato possono essere utili a comprendere la realtà attuale e ad averne meno paura. Anche attraverso una rilettura critica e a posteriori del processo di evoluzione delle tecniche di produzione in Italia. In quest’operazione fondamentali sono i filmati messi a disposizione dall’Archivio del cinema industriale e della comunicazione d’impresa della LIUC che mostrano, con documentari e pubblicità aziendali, le realtà produttive di due colossi italiani: Motta e Fiat. “Il modello Fordista della produzione di massa, molto efficiente per produrre pezzi standardizzati in grande quantità ma estremamente rigido utilizzato dalle imprese nel boom economico – spiega Daniele Pozzi, docente di Storia economica e d'impresa alla LIUC– andrà in crisi a partire dagli anni ’70, quando il mercato sarà più ricco e richiederà prodotti diversificati. Ci si avvia, dunque, verso la possibilità di un terzo salto tecnologico dopo la prima meccanizzazione e la produzione di massa: si affaccia anche in Italia l’era dell’elettronica”.

Senza il ruolo dell’impresa, l’innovazione resta invenzione, ossia nella testa delle persone ma non disponibile a tutta la comunità

Ed è qui che il caso di Adriano Olivetti, inventore del primo calcolatore elettronico, l’Elea 9000, dimostra l’importanza di un ecosistema pronto a ricevere le innovazioni. “Le icone che molti anni dopo saranno usate da Steve Jobs e Bill Gates – spiega Pozzi – le avevano già utilizzate alla fine degli anni ‘50 alla Olivetti che aveva progettato, sviluppato e realizzato interamente in Italia il calcolatore tecnologicamente più avanzato sul mercato”. Ma cosa è andato storto? “La triplice elica costituita da imprese, istituzioni e università – conclude Pozzi – in quel caso non ha funzionato, era troppo in anticipo rispetto al resto del Paese. Questa storia insegna che se non c’è un ecosistema favorevole, le buone invenzioni rimangono tali senza generare innovazione”.  

 

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