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Dieci anni dopo

Il ritorno a forme di sciopero selvaggio nel settore del trasporto pubblico mostra una singolare similitudine con avvenimenti accaduti un decennio fa. Non è la prima volta che i lavoratori di tale settore ricorrono a forme di contrapposizione sindacale dura, consapevoli probabilmente di poter mettere in ginocchio l'economia del paese con uno sforzo individuale economicamente contenuto. E' sufficiente, infatti, mobilitare un settore alla volta per amplificare a dismisura la portata dell'agitazione: il trasporto metropolitano, quello ferroviario, quello aereo, quello marittimo e, all'interno di ciascun settore, un segmento dopo l'altro, ad esempio i macchinisti delle ferrovie e, a seguire, i bigliettai, oppure il personale delle torri di controllo (a sua volta suddiviso in quasi una ventina di sigle sindacali) e, successivamente, i piloti e poi, ancora, le hostess e così via.
In precedenti occasioni, il settore dei trasporti anticipò stagioni sindacali sofferte. Ferma restando, beninteso, la condanna verso comportamenti contrari alla legge che regolamenta lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, resta il fatto che queste agitazioni indicano quanto la situazione sindacale nel nostro paese sia sempre più difficile e quanto il venir meno della concertazione stia mostrando, purtroppo, le sue conseguenze negative.
Un ritorno al passato? Auguriamoci di no, anche se certamente esistono oggi condizioni di precarietà che possono fare da detonatore alla protesta. Non si tratta dell'occupazione che, anzi e fortunatamente, sta crescendo, ma del divario crescente tra costo della vita e retribuzioni. E' un problema reale, cui occorre trovare una soluzione perché, altrimenti, si rischia di innescare una spirale perversa prezzi-salari che comprometterebbe seriamente la competitività del nostro sistema produttivo, già messo duramente alla prova da una quotazione dell'euro che, nel 2003, ha guadagnato una trentina di punti percentuali rispetto al dollaro.
Ed è ancora una volta sulla forbice tra salario lordo e salario netto che occorre intervenire, perché è vero, come indicano le statistiche, che le retribuzioni corrono più dell'inflazione, ma si tratta di quelle lorde e non di quelle nette. In altri termini, il costo del lavoro per l'impresa cresce più dell'inflazione (a fronte, per di più, di una dinamica riflessiva dei prezzi alla produzione), mentre l'introito per il lavoratore fatica a reggere l'aumento dei prezzi al consumo. E' ora di intervenire una volta per tutte su questo paradosso tutto italiano che vede lo Stato ingoiare, attraverso fisco e contributi previdenziali, una fetta troppo ampia delle retribuzioni.
E' illusorio pensare di fronteggiare il problema con interventi spot, come gli accordi tra consumatori e commercianti per bloccare i prezzi a ridosso delle festività natalizie. Intendiamoci: ogni iniziativa anti-inflazione è benvenuta, ma non possiamo affidarci a operazioni di piccola portata. Occorre, piuttosto, recuperare il valore insito nella cosiddetta “politica dei redditi” avviata anch'essa, non a caso, proprio una decina di anni fa (luglio 1993). Essa ha consentito al nostro paese di riprendere un cammino di sviluppo anziché di scivolare - come i drammatici eventi finanziari del 1992, che costrinsero ad una forte svalutazione della lira, avevano fatto temere - su un piano inclinato che ci stava portando fuori della cerchia dei paesi economicamente più avanzati. Quell'esperienza sta ad indicarci che solo con lo sforzo concertato di tutti - imprese, lavoratori, Stato - è possibile ridare al nostro futuro una speranza di ripresa non effimera.
L'esatto contrario di quella prospettiva buia che gli scioperi selvaggi nel trasporto ci hanno fatto nuovamente scorgere. Dieci anni dopo.

Alberto Ribolla

01/15/2004

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