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La meraviglia, fonte della conoscenza

La filosofia ci insegna che i grandi progetti - come il "vivere quotidiano" - devono essere intrisi di meraviglia, anche quando ha il volto doloroso del fallimento.


Il grembo caldo e fecondo della sapienza greca ha partorito un concetto straordinario per ampiezza e profondità: la meraviglia.
Ecco la perenne voce di Platone:
"E' proprio del filosofo questo: di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo essere pieno di meraviglia". Lo stesso Aristotele afferma che lo scopo di tutta la vita è "…l'osservare il cielo".
L'uomo, insomma - si pensi già alla meraviglia del bambino che si apre al mondo -, desidera conoscere, toccare, saggiare, afferrare tutto ciò che lo circonda: dall'agricoltore che scruta il cielo e misura la terra, all'uomo di scienza che teorizza e sperimenta.
Ma la meraviglia, da cui scaturisce la scintilla del conoscere, non è qualcosa di calmo, piano e lineare. E' anche travaglio, dolore, notte e lacerazione.
Il nostro rapporto con gli altri, con le cose, il nostro lavoro, i nostri studi e i nostri successi, infatti, sono frequentemente attraversati dal dolore o - se si preferisce un tono più morbido - sono frutto di fatica e sudore.
Tutto ciò che acquisiamo, che facciamo nostro a livello conoscitivo, costa sforzo, tensione.
E più vogliamo conoscere, ampliare i nostri orizzonti, più aumenta il sacrificio.
Ebbene, se il sacrificio è il prezzo che dobbiamo pagare per conoscere, costruire un progetto lavorativo, un solido mondo di affetti, una dignitosa immagine di noi stessi… perché continuare?
Ma senza spingerci troppo lontano, pensiamo ad un'espressione abbastanza consueta, che caratterizza, sovente, il nostro rapporto con gli altri:
"Mi meraviglio di te, del tuo comportamento!". L'espressione lascia trasparire a tutto tondo uno sbigottimento doloroso, un dispiacere quasi inatteso.
Eppure, noi continuiamo a conoscere e costruire progetti esistenziali perché siamo uomini, cioè un impasto di humus e anima, spirito e pura essenza.
L'uomo è carne malata, anzi mortale; ma anche, per dirla con Platone, "pianta celeste".
L'immagine platonica ci induce, allora, alle seguenti considerazioni:

  • Platone usa una metafora viva, nel senso che l'uomo è tale proprio perché la meraviglia alimenta la conoscenza e, quindi, la speranza.
  • Solo meravigliandosi si può conoscere e si possono costruire progetti esistenziali con l'ardente speranza che non solo si realizzino, ma che contribuiscano anche a rendere migliori noi stessi e ciò che ci circonda.
  • La "lama opaca e tagliente" del fallimento, che - non di rado - affonda crudele nella nostra vita, non deve infiacchire l'entusiasmo. Dobbiamo imparare anche dai fallimenti: dobbiamo saper riprendere il viaggio, riorientarci aprendoci al meraviglioso.
  • La meraviglia alimenta poi l'entusiasmo, che è esaltazione dei sentimenti, degli affetti, dell'intelligenza emotiva e della brama di conoscenza. L'entusiasmo ha valore morale, perché coinvolge anche gli altri nella realizzazione di nuovi mondi: si pensi alla semina in comune di certi agricoltori, ai progetti aziendali, alle scoperte scientifiche frutto di ricerche di gruppo e alla stessa vita di coppia. L'entusiasta, proprio perché alimentato dalla meraviglia, sa vincere anche i fallimenti.
  • Infine, meravigliarsi è prendersi cura di sé. Secondo la grande lezione di Socrate, infatti, bisogna rendere gravida la propria anima (sede delle qualità intellettive e morali dell'uomo), curandola con amore ed intelligenza. Occorre mettersi alla prova nella vita di tutti i giorni.
Ecco allora il senso ultimo del meravigliarsi: inseminare continuamente l'anima, affinché la nostra "pianta celeste" cresca rigogliosa e sappia resistere ai venti, talvolta impetuosi, dell'esistenza.

04/19/2001

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