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Un marchio, una garanzia

Il punto sulla marcatura d'origine obbligatoria. Per qualcuno uno strumento fondamentale, per altri assolutamente controproducente. Varesefocus ne ha parlato con Michele Tronconi, imprenditore tessile varesino e futuro presidente Euratex.

Michele TronconiMichele Tronconi, vicepresidente dell'Unione Industriali varesina e di Smi-Ati, la Federazione delle Imprese Tessili e Moda Italiane, è stato nominato presidente di Euratex, l'associazione che rappresenta le imprese europee del settore, di cui è stato vicepresidente nell'ultimo biennio. Entrerà in carica a partire dal primo gennaio 2007 e guiderà una delle principali organizzazioni di rappresentanza dell'industria europea, a Bruxelles. Il settore tessile e abbigliamento comprende circa 165 mila imprese con 2,4 milioni di occupati e rappresenta tuttora il 4% del valore aggiunto e il 7% dell'occupazione manifatturiera europea, mentre costituisce il secondo esportatore di stoffe e il terzo esportatore di capi d'abbigliamento a livello mondiale.
La nomina di Tronconi alla presidenza di Euratex, sostenuta da numerosi colleghi Italiani, a partire da Paolo Zegna, Presidente di Smi-Ati, è anche il riconoscimento del grande impegno profuso in questi ultimi anni nel sistema associativo. Egli si è occupato, tra l'altro, della crescita impetuosa delle importazioni di prodotti tessili e abbigliamento provenienti dalla Cina, dopo il venir meno del regime delle quote previsto dall'Accordo Multifibre. Come è noto, la sensibilizzazione del Governo italiano e l'interlocuzione con la Commissione UE ha portato alla sottoscrizione del Memorandum d'Intesa tra la stessa Unione Europea e la Cina per l'applicazione di speciali quote di salvaguardia, fino al 31 dicembre 2007. Si è trattato di "realizzare delle 'chiuse idrauliche', una sorta di Canale di Panama - spiega Michele Tronconi - per allineare l'ondata di offerta proveniente dall'ex Celeste Impero con la recettività e la propositività del mercato interno. Ciò con l'obiettivo di assicurare il doppio senso di marcia al commercio internazionale, fatto d'importazioni, ma anche di esportazioni. E per poter esportare le nostre merci dobbiamo essere in grado di continuare a produrle".

Nel suo lavoro si è spesso occupato delle questioni del Made in e della trasparenza, che riguardano da vicino molti settori dell'industria italiana. Quali sono le maggiori esigenze in questo senso e quali i passi compiuti?
"Avere più trasparenza significa dare più informazioni ai consumatori su ciò che acquistano e far pagare loro prezzi coerenti con l'effettivo valore del prodotto. Se si nasconde l'origine di un prodotto c'è la possibilità di far credere che esso sia stato realizzato in Italia, facendolo pagare come tale, quando magari è stato fatto in Cina. Il forte ricorso a questo equivoco aiuta a spiegare, tra l'altro, perché i prezzi all'importazione abbiano continuato a scendere, mentre quelli al consumo continuino a salire. Non ho nulla contro la Cina, o l'India, ma sono convinto che una maggiore trasparenza obbligherebbe ogni offerente a giocarsi per i valori che ha."

A che punto siamo ora?
"La marcatura d'origine è l'oggetto di una proposta di regolamento fatta dalla Commissione Europea nel dicembre scorso. Ciò ha costituito un primo successo dell'attività di lobby dell'associazionismo industriale in Italia. La decisione definitiva sta, ora, al Consiglio europeo, ma l'inserimento della questione all'ordine del giorno avverrà solo quando la Commissione sarà sicura di ottenere una maggioranza a favore. Questa sicurezza, purtroppo, non c'è ancora".

Qualcuno, sia in Europa che nel nostro Paese, osteggia questo tipo di misure, perché?
"Esiste un blocco capeggiato da Germania, Inghilterra, Svezia, Danimarca, Finlandia e Austria, più altri otto Paesi, che ritengono controproducente l'introduzione del Made in. Perciò ne osteggiano l'approvazione. Un collega austriaco mi ha spiegato così la contrarietà del suo Paese: sono rimaste solo due grandi confezioni per abiti tradizionali, secondo le usanze locali. Tuttavia la confezione è stata completamente delocalizzata, per lo più in Cina, in parte in Romania. Se si introducesse l'obbligo del Made in, queste aziende sarebbero costrette a rendere evidente che ciò che viene offerto al consumatore nel segno della tradizione e dell'originalità austriaca, in realtà, arriva dalla Cina. Probabilmente le vendite crollerebbero. Ciò che vuole essere reso evidente da parte di chi ancora produce in Europa è esattamente la stessa cosa che vuole essere occultata da chi ha smesso di produrre da noi. Nessuno può contrastare la globalizzazione, col sottostante processo di riallocazione di parte delle produzioni. Quello che vogliamo, però, è poter differenziare e valorizzare ciò che ancora viene fatto 'qui', rispetto a ciò che viene fatto 'altrove'".

Quale soluzione allora?
"Trovandoci di fronte a un conflitto d'interessi molto specifici, l'unica via è quella di ricondurre la questione all'osservanza di principi comuni, di portata più generale. E' l'esigenza di maggiore trasparenza, che dovrebbe risultare determinante. Soprattutto a favore dei consumatori. La decisione finale, ora, è in mano ai Governi dei Paesi membri e al ruolo centrale giocato dal nostro su questa vicenda. Non è da escludere che entri in funzione il cosiddetto "mercato delle vacche" tipico del processo decisionale europeo. I Paesi meno coinvolti dal tema in discussione potrebbero modificare la loro posizione, in cambio dell'appoggio su provvedimenti più rilevanti per loro. Desidero aggiungere che anche se mi sono speso molto su questa vicenda, sono altresì convinto che il Made in e la tracciabilità non siano una panacea con cui si risolvono tutti i problemi dell'industria. Senz'altro una riduzione del costo dell'energia per le imprese italiane farebbe molto meglio al bilancio delle stesse, che non l'introduzione del Made in. Gli aspetti della trasparenza hanno, però, una valenza strategica di lungo periodo, servono per dare visibilità alla filiera, alla catena del valore. E' un modo per creare un dialogo tra i consumatori e chi è a monte del processo distributivo".

Tornando alla sua nomina a presidente di Euratex che significato ha per lei questa carica?
"E' un grande onore e un grande onere, anche se tra le due cose prevale la prima. Un grande onore per due motivi: il primo è che la scelta è caduta su di un imprenditore d'azienda familiare, di piccole-medie dimensioni, mentre i presidenti precedenti facevano tutti capo a grandi gruppi. Il secondo è legato al fatto che sia stato scelto un italiano, mettendo così in primo piano il ruolo del nostro Paese in questo settore. Ovviamente i meriti della mia elezione vanno attribuiti al lavoro di squadra fatto insieme a tanti colleghi, che ringrazio, e che ha portato, un anno fa, alla costituzione di Smi-Ati. Avere finalmente una voce unica del Tessile e Abbigliamento Italiano è risultato essenziale per avere la giusta visibilità, sia a livello nazionale che a livello europeo".

Quali sono secondo lei le maggiori necessità per il rilancio del settore tessile?
"Una delle cose più importanti è rinfrescare l'immagine del settore. Un buon esempio, in questa direzione, è venuto dal progetto Grow Up dell'Unione Industriali varesina. Tutti siamo orgogliosi del Made in Italy che viaggia nel mondo, ma sul fronte della produzione industriale l'immaginario collettivo ci associa alla prima rivoluzione industriale. In troppi ci vedono come un fossile che cammina, mentre molte imprese del settore hanno saputo far tesoro delle tecnologie più recenti. Solo che sono in pochi a saperlo. Bisogna, quindi, comunicare meglio, non solo le nostre esigenze, ma anche le nostre capacità, fondate sulla creatività, sulla flessibilità e la tempestività delle nostre lavorazioni. E non solo, giacché la cultura della qualità, da noi, copre tutta la vita del prodotto, dalla culla alla tomba. C'è il rispetto dei diritti di chi lavora, l'attenzione per l'ambiente e per gli aspetti tossicologici; la sfida, quindi, è quella di continuare a contrapporre, a qualcosa che ci costa meno, qualcosa che vale di più. Ma dentro questa sfida c'è anche la necessità, per tante piccole medie imprese, di crescere di dimensione, mettendosi assieme. In questo senso, penso che il sistema associativo stia dando il buon esempio".

09/22/2006

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