È quando vengono meno le certezze che si è costretti a ripartire dalle fondamenta. Ricostruire, in questi casi, è meglio che ristrutturare. Ed è a questo punto che siamo arrivati con la Brexit. Il voto inglese ci ha messi di fronte a qualcosa che fino a qualche anno fa sembrava impossibile: uscire dalla Ue si può. Quello dell’integrazione europea non è un percorso irreversibile. Non esistono sensi unici. Viene meno uno dei capisaldi politici degli ultimi decenni e con esso molte delle  convinzioni economiche delle imprese e dei mercati. Tanto che oggi sembra dominare il senso di abbandono, tipico di quando si esce dalla propria “zona confort”. I bookmaker hanno la possibilità di aprire un nuovo filone di scommesse. Chi sarà il prossimo? Uno scherzo, ma non troppo. Esistono delle classifiche stilate dalle banche d’affari sull’effetto contagio. Ne parliamo nell’articolo che trovate nella rubrica “Vita Associativa”. Vere e proprie graduatorie sulle probabilità di una prossima uscita dalla Ue, sulla base delle quali gli operatori prendono le decisioni di come agire e di dove investire sui mercati finanziari, che hanno poi, ormai lo abbiamo ben capito tutti sulla nostra pelle, effetti sull’economia reale e sulla nostra quotidianità di imprenditori, lavoratori, consumatori e famiglie. E in questa classifica l’Italia arriva alla non invidiabile sesta posizione. Per noi le certezze sono ancora minori, dunque.

L’addio della Gran Bretagna alla Ue ci pone di fronte alla sfida di rivedere un progetto di integrazione che se puntasse sullo status quo rimarrebbe a rischio.

“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!” diceva Gino Bartali. Forse non proprio tutto, per quanto riguarda il progetto europeo, ma molto sì. L’addio della Gran Bretagna alla Ue ci pone di fronte alla sfida di rivedere un progetto di integrazione che se puntasse sullo status quo rimarrebbe a rischio. Il riferimento non è alla solita questione tra maggiore o minore flessibilità nei conti. Tra maggiore o minore solidarietà nella gestione del flusso di profughi. A queste piccole e grandi singole partite su cui si gioca un’importate fetta del futuro europeo, si affianca, ed è quella a cui qui mi riferisco, una più fondamentale sfida: quella di ricostruire da zero un senso di appartenenza all’Europa.

Un senso di appartenenza che non si basi più sul fatto che l’Europa sia irreversibile, perché come abbiamo visto così non è. E nemmeno sulla tentazione di creare consenso facendo leva sulla paura. Non possiamo dire all’opinione pubblica dei nostri singoli Stati che bisogna essere europei perché i rischi economici di non esserlo sono troppo grandi. Non è questa la via giusta. Anche perché un’altra cosa che ci insegna la Brexit è quanto questi ragionamenti siano elettoralmente perdenti.

Serve invece la costruzione di un nuovo progetto europeo che affondi le proprie radici su un nuovo terreno, quello del consenso

Serve invece la costruzione di un nuovo progetto europeo che affondi le proprie radici su un nuovo terreno, quello del consenso. Su una voglia di partecipazione delle persone ad un ambizioso piano di sviluppo economico, politico e sociale. È solo quando hai più alternative che una scelta è frutto di una consapevole convinzione. Proprio per questo, da oggi in avanti chi si dirà europeista lo farà non con ineluttabile rassegnazione, ma con un rinnovato senso di appartenenza. Un patrimonio, questo, da valorizzare. Qui, però, sta il punto. Quanti saranno i sostenitori della Ue tra uno, due o tre anni? Come aumentare il favore dell’opinione pubblica per un’Europa più coesa? Come invertire il trend di un’impopolarità crescente delle istituzioni di Bruxelles? È proprio in un tale momento storico in cui sempre più europei non hanno paura di un continente senza Ue, che dobbiamo dar vita ad un nuovo ambizioso progetto comunitario, che faccia partecipi le persone, prima ancora che le istituzioni. Per riuscirci, però, dobbiamo far sentire la gente parte di un progetto condiviso che punti allo sviluppo sociale ed economico generale. I muri, non solo fisici, che vediamo ergersi sono sintomo di una paura crescente. Eppure solo un’Europa con meno confini e barriere può renderci più sicuri, perché più forti nel mondo. Un esempio sono proprio le imprese. Quelle oggi più solide sono quelle più internazionalizzate. Non è un caso. Il problema è farlo capire alle persone, non dire loro: è così, fidatevi. Un compito di tutti. E noi, come imprenditori, faremo responsabilmente la nostra parte.

 

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