Le macchine mettono a rischio il lavoro o lo creano? Nel lontano 1821, all’apice della Prima Rivoluzione Industriale, David Ricardo, tra i più influenti economisti di fine ‘700, introdusse il concetto di “disoccupazione tecnologica”. La terza versione della sua opera più importante, intitolata “Princìpi di economia politica e dell’imposta”, conteneva per l’appunto un capitolo dedicato all’automazione del lavoro. In quelle pagine, l’economista londinese sosteneva la tesi secondo cui le grandi rivoluzioni tecnologiche portino inevitabilmente alla distruzione del lavoro dell’uomo. Questo concetto suscitò una forte reazione emotiva tra i contemporanei di Ricardo, terrorizzati dall’idea di vedersi letteralmente rubare il lavoro dalle macchine. Peccato però che i dati raccolti della Bank of England in quegli anni smentiscano in pieno la tesi dell’economista inglese. Si da il caso infatti che il reddito medio di un lavoratore britannico a tempo pieno tra il 1823 e il 1873 aumentò del 40% e la percentuale di occupati rispetto al totale della popolazione passò dal 43 al 47%. In altre parole, le condizioni lavorative dell’impiegato medio in Inghilterra migliorarono di gran lunga nel corso di quei decenni. Con il senno di poi, lo stesso Ricardo avrebbe ritrattato la sua tesi, se non fosse prematuramente scomparso appena un paio d’anni dopo averla formulata. Eppure se ora possiamo perdonare la diffidenza dello studioso settecentesco nei confronti della tecnologia, non possiamo fare altrettanto con gli economisti odierni che predicano un futuro in cui l’intelligenza artificiale sostituirà definitivamente il lavoro umano. Non tenendo minimamente in considerazione quanto accaduto in passato, durante le prime tre Rivoluzioni Industriali.

Nel 1821, durante la Prima Rivoluzione Industriale, l’economista londinese David Ricardo introduceva la teoria della “disoccupazione tecnologica”. Allora il tempo lo smentì, ma cosa avverrà domani?

“Quella del rapporto tra uomo e macchina è una storia antica. Da almeno 3 secoli si discute del fatto che le innovazioni tecnologiche e le macchine possano sostituire l’uomo e quindi produrre disoccupazione”, spiega Massimiliano Serati, Professore Associato di Politica Economica alla LIUC – Università Cattaneo. “In realtà la storia è molto più complessa e ci racconta che, su un orizzonte lungo, le innovazioni tecnologiche hanno migliorato non solo la qualità della nostra vita ma anche le prospettive occupazionali delle persone”. Con una piccola avvertenza: le professioni cambiano e lo fanno molto più rapidamente quando di mezzo ci sono grandi salti tecnologici. Ogni passaggio porta con sé difficoltà e sfiducia, eppure occorrerebbe solamente avere un po’ di pazienza per ammirarne i risultati positivi. Ne sono una riprova i dati britannici degli ultimi 250 anni. Il progresso tecnologico nel lungo periodo ha prodotto nuove opportunità lavorative, migliorato il rapporto tra lavoro e tempo libero e aumentato il livello di benessere complessivo. Più macchine significano più produttività, più occupazione e tendenzialmente anche più salute. E quindi cosa ci aspetta oggi?

“Le intelligenze artificiali sono la vera frontiera del domani. Quelle strutture, macchine fisiche o virtuali, che oltre a riprodurre in maniera precisa, puntuale e veloce operazioni per cui sono state programmate, sono anche in grado di imparare dagli errori che commettono, come fa il cervello umano”, afferma Serati, aggiungendo che “l’intelligenza artificiale, molto probabilmente, è un salto ancora più epocale di quello che abbiamo fatto dai tempi delle piramidi ad oggi. Questo porta con sé l’idea di nuove figure professionali”. Se 10 anni fa avessimo ipotizzato che qualcuno in futuro si sarebbe guadagnato da vivere semplicemente facendosi fotografie e condividendole su Internet, probabilmente ci avrebbero preso per pazzi. Il domani, probabilmente, ci riserva professioni altrettanto impensabili come queste che, fino a pochi anni fa, erano per noi inimmaginabili.

“La storia ci racconta che, su un orizzonte lungo, le innovazioni tecnologiche hanno migliorato non solo la qualità della nostra vita ma anche le prospettive occupazionali delle persone”

Il dibattito, insomma, è aperto. In una ricerca presentata al World Economic Forum 2016, dal titolo “Il futuro del lavoro” si prevede che entro il 2020, 7 milioni di posti di lavoro verranno persi su scala mondiale, principalmente in ruoli amministrativi, di ufficio e nella produzione. Mentre ci si aspetta la creazione di 2 milioni di nuovi posti nelle aree finanziaria, management, informatica, matematica, ingegneria, robotica, nanotecnologie, genetica e biotecnologie. Il saldo sarebbe di 5 milioni di posizioni lavorative in meno in tutto il mondo. Uno scenario davvero disastroso. Tuttavia, “Skills Revolution”, altra ricerca del World Economic Forum, rilasciata all’inizio del 2017, ribalterebbe completamente le prospettive di occupazione mondiali a breve termine. Affermando che l’automazione farà aumentare il lavoro, a patto che ci sia un adeguamento delle competenze degli addetti. Cosa fare dunque? “La nostra scommessa per i prossimi anni – conclude Serati – non è solo quella di difendere i posti di lavoro già esistenti, ma di adeguarci e anzi agevolare e accompagnare i cambiamenti di questi posti di lavoro in maniera vincente. Le nuove professioni saranno legate alle recenti tecnologie digitali: sarà una conversione lunga e qualche ‘vittima’ rimarrà sul campo, ma io continuo a pensare che la storia ci insegna che le prospettive a lungo termine siano buone. Insomma, ci aspetta un nuovo mondo”.

 

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