Il mito della fine del lavoro - inteso come fatica - è un sogno ricorrente dell’umanità. Si va dai tempi di Seneca che con un saggio dal titolo significativo - “De Otio” - giustificava la sua ritirata dalla vita pubblica (il suo, a dire il vero, era un lavoro un po’ particolare... ndr) - alle concezioni catastrofiste dei luddisti sino a giungere alle visioni degli ultimi 50 anni, senz’altro più “tecnologiste” che vedono il progresso sostituire l’uomo con le macchine. 

Abilità di pensiero logico e matematico. Capacità di decisione. Competenze di comunicazione, di coordinamento e di monitoraggio. Ecco chi avrà ancora un’occupazione nell’impresa del prossimo futuro

Il XXI Rapporto della Fondazione Einaudi sull’economia globale e l’Italia - “Globalizzazione addio?” - offre spunti interessanti anche su questo tema. Ripartiamo da dove ci eravamo lasciati col primo articolo del percorso intrapreso da Varesefocus negli scenari che emergono da questa importante pubblicazione. Ossia dalla citazione di Isaac Asimov che, nel 1964, scriveva a proposito di cosa sarebbe diventato in futuro il lavoro dell’uomo: “Nel mondo del 2014 ci saranno pochi lavori di routine che l’uomo potrà fare meglio di una macchina. La razza umana diventerà quindi in buona parte una razza di ‘guardiani di macchine’ (machine tenders). I pochi fortunati che potranno svolgere lavoro creativo  saranno la vera élite dell’umanità. Soltanto loro, infatti, faranno qualcosa di più che servire una macchina”.

La sua visione, da futurologo, toccava un tema di quelli che appassionano l’umanità da un punto di vista, almeno, utopistico. Ossia facendo riferimento all’idea del lavoro come fonte di fatica e di obbligo quotidiano, altro è, naturalmente, il vissuto del lavoro come fonte di benessere, di realizzazione e di reddito e, non dimentichiamolo, di sopravvivenza. Da questi aspetti connessi al lavoro, l’uomo, naturalmente non ha mai voluto prendere le distanze. E anzi, per larga parte dell’umanità, nei paesi in via di sviluppo ed ora anche in parte di quelli industrializzati, il lavoro  rimane un desiderio, purtroppo non sempre realizzato. 

Oggi, con l’avvento della Quarta Rivoluzione Industriale, il dibattito sul lavoro è tornato di grande attualità. Tutti noi percepiamo la forza del cambiamento insita in una trasformazione così pervasiva che non si limita a sostituire l’uomo con le macchine - cosa non nuova, bensì già avvenuta più volte nel tempo dai telai ai centri a controlli numerico - ma sostituisce intelligenza con automazione e attraverso le applicazioni dell’Internet of  Things tocca le nostre abitudini non solo di lavoratori, ma di persone, cittadini e consumatori.

Il lavoro di fabbrica nel futuro sarà molto diverso da quello a cui siamo abituati. Minor enfasi sulle capacità fisiche (forza e destrezza) e maggior necessità di competenze soggettive e trasversali

La grande questione di questi nostri tempi si lega quindi al lavoro in modo nuovo, perché la trasformazione è pervasiva. Gli effetti delle recessione dell’ultimo decennio si stanno combinando con quelli delle trasformazioni tecnologiche e demografiche. Cambia il lavoro nella sua quantità e ne danno buon conto i diversi studi sull’impatto occupazionale, come quelli di World Economic Forum che stimava che tra il 2015 ed il 2020 nelle 15 principali economie mondiali si perderanno 7,1 milioni di posti di lavoro “tradizionali” a fronte della creazione di 2 milioni di posti di lavoro innovativi. 

Ma soprattutto cambia, notevolmente, il lavoro nella sua qualità e nella sua organizzazione. Tanto da non rendere equiparabili i semplici bilanci numerici. Non è sul saldo entrate ed uscite, che oggi nessuno può ragionevolmente stimare con accuratezza , ma sul contenuto del lavoro, che si giocherà il nostro futuro.

“In un mondo di reti di risorse produttive (macchinari, robot, sistemi logistici) in grado di riconfigurarsi autonomamente in situazioni differenti - ricorda il Rapporto Einaudi - appare piuttosto improbabile che il contributo dell’uomo resti quello attuale (un più o meno ampio numero di procedure da realizzare nell’ambito di uno schema lineare)”.

Il lavoro di fabbrica nel futuro sarà molto diverso da quello a cui siamo abituati. Minor enfasi sulle capacità fisiche (forza e destrezza) e maggior necessità di competenze soggettive e trasversali, richieste per lavorare in organizzazioni complesse. 
Minor lavoro di specializzazione, maggior lavoro di integrazione di conoscenze e competenze differenti che il World Economic Forum nel suo Rapporto 2015 individuava come:

  • competenze di processo e di sistema (monitoraggio del lavoro proprio ed altrui, capacità di decidere); competenze relazionali (comunicazione , coordinamento e negoziazione);
  • competenze di contenuto (comprensione ed espressione scritta ed orale, alfabetizzazione informatica);
  • competenze cognitive (pensiero logico e matematico, astrazione), fondamentali per imparare ad imparare.

Ci avviamo verso una “Fabbrica elegante”, come preconizza il Rapporto Einaudi? Ma come ci arriveremo? Questo è il vero punto.
Quanto l’istruzione e la formazione continua sapranno accompagnare il fenomeno della trasformazione del lavoro nelle professioni “automatibility” a più elevata percentuale di automatizzabilità, in una parola di pessimo italiano? 
Non sarebbe corretto farsi spaventare dai numeri e dalle facili previsioni catastrofistiche. Neppure i luddisti ebbero ragione. 
Sicuramente però, alla sfida del futuro, noi italiani dovremo presentarci preparati. Sarà la sfida della qualità, che premierà professioni creative, in cui l’intelligenza, la capacità delle persone e l’esclusività e la ricercatezza delle produzioni rimarrà una barriera all’entrata. La nostra barriera che ci consentirà di utilizzare con creatività il progresso tecnologico e non di esserne piegati.  

Per rispondere alla questione posta all’inizio: non siamo davanti alla fine del lavoro, ma sicuramente dovremo prepararci ad un nuovo inizio.  

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