La capacità di rispondere alle richieste di nicchia del cliente, la forte spinta alla personalizzazione del prodotto, l’abilità di realizzare l’eccezionale su piccola scala, la qualità del servizio che accompagna la merce: l’export italiano non si misura solo attraverso i flussi in crescita sui mercati. Ma quali sono le sfide da vincere per mantenere questi primati?

Centodiciotto rappresentanze consolari in un’unica città: Milano. Italia. 
Si tratta di un record che, come ha citato il Presidente di Confindustria Lombardia, Alberto Ribolla, durante la presentazione del Rapporto internazionalizzazione 2017, pone il capoluogo regionale al top delle presenze consolari nel mondo. Vorrà dire qualcosa?
Questo dato, insolito, ma efficace  nella sua semplicità, unito alla marcata propensione all’export, conferma l’immagine di un Paese, l’Italia, numericamente piccolo, per popolazione e territorio, ma produttivamente grande grazie alla qualità dei nostri manufatti e all’abilità di adattamento alle scosse del mercato. 

In questo senso è significativo quanto ha sottolineato anche Banca d’Italia riguardo i risultati che hanno ottenuto le imprese, in tempi complessi e di crisi, di arginare l’erosione  della quota italiana di export globale. Una fetta di mercato, che era scesa dal 4,4% al 3,1% negli anni, tra il 1999 ed il 2010, della grande emersione delle nuove economie asiatiche, ma che da allora siamo riusciti a mantenere stabile: al 3%. Come interpretare il dato? Che in questi  anni abbiamo saputo correre un poco di più rispetto alla domanda potenziale dei mercati, riducendo nel contempo anche il ritardo verso la Germania. E saper accelerare in tempi di crisi non è da  tutti. 
L’export in quest’ultimo lustro ha agito da laccio emostatico nel nostro Paese, tamponando gli effetti negativi del calo della domanda interna, dai consumi privati  agli investimenti. E tutto questo in condizioni operative di contesto meno favorevoli rispetto ai nostri concorrenti diretti.

Sino a qui la lettura tradizionale della nostra posizione internazionale, quella che si limita a guardare ai flussi di export. 
Tuttavia esaminare solo tale aspetto porta in parte a sottovalutare l’effettiva presenza del prodotto italiano nel mondo. I dati delle vendite oltre confine che normalmente vengono rilevati e ai quali facciamo riferimento fotografano in realtà solo una parte di quella che è la posizione della nostra  produzione: coglie solo i movimenti delle merci in uscita dal Paese, ma non dà la misura di quanto l’industria italiana effettivamente produca. 
La dinamicità dei nostri imprenditori e la necessità di dare risposte all’introduzione di provvedimenti che hanno richiesto l’obbligo di avere almeno una certa percentuale di un prodotto o servizio realizzato nel Paese (Local Content Requirement) hanno infatti spinto le nostre imprese a localizzarsi in quelli che prima erano semplici mercati di esportazione e a strutturarsi in catene del valore internazionali (Global Value Chain-GCV). 

Alle imprese è richiesto di imparare a navigare le catene produttive e del valore (che si fanno sempre più complesse e articolate) e di saper stare nelle piattaforme di acquisto B2B on-line

Mettendo insieme questi elementi numerici, non solo emerge una fotografia di un Paese capace di generare un export resiliente, ma anche quella di un’Italia che ha importanti asset da valorizzare: il fenomeno del Bello e Ben Fatto - oggetto dell’analisi del Centro Studi di Confindustria -, la capacità di molti di anticipare e soddisfare i bisogni di “nicchia del cliente”, la forte spinta alla personalizzazione del prodotto, l’abilità di realizzare l’eccezionale su piccola scala, la qualità del servizio che accompagna il prodotto. Questi sono i fattori competitivi  vincenti che ci permettono di rimanere, con dignità, sui mercati internazionali; ma la vera domanda che dobbiamo porci è: esportare oggi è garanzia di saper esportare domani? 
Dobbiamo rifuggire il rischio rispecchiarci con autocompiacimento nei dati di un presente che sta diventando assai velocemente passato. Non è di una prova muscolare che abbiamo bisogno, ma di iniziare a porci domande riguardo a quali saranno le caratteristiche dell’export del futuro. Le imprese operano ormai in un mondo in cui la produzione cambia molto più velocemente che nel passato; in cui si sono accorciate le distanze e moltiplicati i competitor; in cui si stanno trasformando il modo di servire i mercati, il modo di acquistare del cliente e l’equilibrio interno tra  contenuto di prodotto e di servizio alla vendita. 

È finito il tempo dell’esportazione eroica, quella in solitaria con la valigetta del campionario in mano. 
Esportare oggi significa saper governare un processo, saper organizzare le forze, saper strutturare la propria azienda per poter dare risposte in maniera veloce e rapida sui mercati internazionali, saper sfruttare le tecnologie per proporre in maniera nuova ed accattivante ed efficace i prodotti. 
Esportare oggi significa, anche, comprendere le opportunità che verranno aperte dal salto di paradigma tecnologico a cui stiamo assistendo. Pensiamo ad esempio quanto può significare per un’impresa meccanica poter ragionare a distanza con il cliente su prototipi digitalizzati che consentano simulazioni nel contesto di applicazione. 
Ci aspettano, quindi, alcune importanti sfide.
La prima è macroeconomica: mantenere le posizioni in un mondo che cambia gli equilibri e i rapporti di potere economico.
La seconda è qualitativa: mantenere alta la percezione del valore del prodotto italiano, quel Bello e Ben Fatto che è un nostro fattore distintivo e che ci garantisce un’immagine Paese di alto livello.
La terza è qualificativa: imparare a navigare le catene produttive e del valore, che si fanno sempre più complesse e riarticolate. In cui non serve un biglietto aereo per andare in fiera, ma serve saper stare in maniera qualificata e certificata nelle piattaforme di acquisto B2B on-line.
La quarta è tecnologica: saper sfruttare le tecnologie per promuoversi adeguatamente dentro le catene tecnologiche globalizzate, le global value chain. 
La quinta, infine, è molto semplice: organizzarsi, organizzarsi, organizzarsi. 
Interessanti a questo proposito gli esiti del Rapporto Internazionalizzazione 2017 di  Confindustria Lombardia, arricchito quest’anno da un’analisi realizzata da Lojacono Misani sui comportamenti di circa 1.200 imprese esportatrici. Una lettura non solo quantitativa, ma anche qualitativa per capire visioni logiche organizzative, strategie (più o meno  vincenti)  e performance di chi globale è nato (imprese che la ricerca definisce “born global” ndr) o ha imparato ad esserlo. Secondo un’equazione semplice, ma efficace: + Global = +Happy. 

 

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