Moda, alimentare, arredamento, occhialeria, gioielleria, calzature: il cuore del made in Italy è destinato a crescere nei Paesi avanzati dove nel 2022 toccherà quota 70 miliardi, 11 miliardi in più rispetto ai livelli attuali. E, nonostante la dottrina “America First” della Casa Bianca, è proprio quello statunitense il mercato che darà alle imprese italiane del “Bello e Ben Fatto” le più grandi soddisfazioni

“Invochiamo il dono di un po’ di bellezza per addolcire, per arricchire, per nobilitare l’aspra vita quotidiana con il sorriso del divino, del solo indispensabile superfluo”. È con una celebre frase della scrittrice e critica d’arte Margherita Sarfatti (1880-1961) che si apre il nuovo rapporto “Esportare la dolce vita” curato dal Centro Studi Confindustria e Prometeia. Più di 250 pagine di analisi per capire se e quanto cresceranno le esportazioni italiane legate ai settori del “Bello e Ben Fatto” nei principali mercati avanzati del pianeta. Alimentare, abbigliamento, arredamento, calzature, oreficeria e gioielleria, occhialeria: in pratica il cuore pulsante di quel made in Italy considerato da più di un consumatore estero un “indispensabile superfluo”, per dirla appunto alla Sarfatti. Prodotti, secondo la ricerca, destinati a trainare il successo dell’industria italiana nel mondo. Almeno in quello sviluppato. È qui che in termini assoluti si registrerà la maggiore crescita dell’export italiano. “Il tono più moderato del ritmo di sviluppo atteso per i mercati avanzati, rispetto a quello doppio stimato per gli emergenti - si legge nel rapporto - non deve offuscare la dimensione assoluta delle opportunità, ben più significativa: nell’orizzonte di previsione il potenziale di mercato dei settori del ‘Bello e Ben Fatto’ nei paesi avanzati è pari a tre volte quello degli emergenti”. 

Fin dove può arrivare il made in Italy
Dall’alimentare, alla moda, passando per i manufatti di lusso e per i mobili, ad oggi le esportazioni italiane nelle 31 economie più sviluppate, come quelle dell’Europa, degli Stati Uniti o del Giappone ammontano a 59 miliardi di euro. Questo il dato con cui si è chiuso il 2016. Ebbene, secondo le proiezioni del Centro Studi Confindustria, nel 2022 il valore di questo export arriverà alla cifra di 70 miliardi di euro, 11 miliardi in più rispetto ai livelli di oggi, con un balzo in avanti percentuale del 20%. Una stima, ci tengono a precisare i ricercatori di viale dell’Astronomia, prudenziale. Verosimilmente, infatti, la crescita sarà ancora maggiore. 

A crescere di più nei prossimi sei anni sarà a livello percentuale l’arredamento (+27%), in valore assoluto, invece, il primato spetterà al tessile-abbigliamento (+4miliardi)

La prima stima prudente, infatti, si basa sull’ipotesi che l’Italia mantenga le attuali quote di mercato. Se, invece, come è lecito aspettarsi e come è avvenuto d’altronde anche negli ultimi anni, il made in Italy guadagnerà posizioni nelle varie classifiche settoriali, il Bello e Ben Fatto di casa nostra potrebbe arrivare a toccare la soglia dei 76,9 miliardi: quasi 18 miliardi in più dell’attuale. In termini percentuali: +31%. “La credibilità di questo secondo scenario risiede proprio nell’ipotizzare dinamiche già realizzate nella storia recente”, spiega la ricerca. Un esempio concreto? “Se l’alimentare italiano riuscisse nei prossimi sei anni ad avere la stessa performance che ha avuto negli ultimi quattro anni la Francia negli Usa o la Spagna in Francia, potrebbe guadagnare oltre un miliardo in più di maggiori vendite estere in questi due soli mercati”. L’obiettivo è alla nostra portata.
Stando all’ipotesi più prudenziale, a crescere di più a livello di singoli comparti sarà quello dell’arredamento che incrementerà i propri livelli di export del 27% nei prossimi sei anni. In valore assoluto: 2,1 miliardi in più. Consistente anche il balzo in avanti previsto per le calzature: +26%, ossia 1,8 miliardi di crescita. Bene anche il tessile-abbigliamento che darà vita alla migliore prestazione in termini di valori assoluti di crescita: +4 miliardi, (+24%). L’alimentare arriverà nel 2022 a esportare prodotti per 23 miliardi, ossia 2,4 miliardi aggiuntivi rispetto ad oggi (+12%). Per l’occhialeria la crescita sarà invece di 3,3 miliardi (+21%), mentre l’orificeria-gioielleria segnerà +642 milioni (+18%). 
Alla base delle previsioni c’è una scommessa: quella per la quale “i consumi cresceranno mediamente di due decimi di punto più del Pil”.

Il neo-protezionismo non è invincibile 
Ma come la mettiamo con il neo-protezionismo che avanza? Il clima politico in profondo cambiamento è tenuto in conto nella creazione delle proiezioni e delle tabelle del rapporto. Anche perché il colpo di freno al libero-scambio mondiale non è una novità introdotta dal neo-Presidente americano, Donald Trump. L’innalzamento dei toni e la campagna di comunicazione contro i trattati per la liberalizzazione del commercio introdotti con il nuovo corso della Casa Bianca non devono far perdere di vista il fatto che in realtà è da tempo che le barriere si stanno alzando. Ancor prima che Trump potesse ambire anche solo a vincere le primarie del proprio partito. E a erigerle non sono solo gli Stati Uniti. “Dal 2008 al 2016 - spiegano gli esperti del Centro Studi Confindustria - i paesi del G20 hanno implementato più di 4 mila nuove misure protezionistiche”. Lo stesso rapporto Global Trade Alert ha messo in evidenza come il ricorso a nuove misure protezionistiche sia aumentato di più del 50% negli ultimi due anni. Restrizioni introdotte nell’80% dei casi da membri del G20. 

Le previsioni del Centro Studi Confindustria e Prometeia sono prudenziali. Stime più coraggiose, ma pur sempre verosimili, indicano per il 2022 un export made in Italy a quota 76,9 miliardi

La sfida degli Stati Uniti
Trump o non Trump, secondo il rapporto “Esportare la dolce vita” saranno proprio gli Stati Uniti il Paese dove il Bello e Ben Fatto dell’Italia crescerà di più da qui al 2022. Lo scenario più cauto (“che recepisce già nei dati un peggioramento delle condizioni di accesso al mercato”) pronostica che nel 2022 gli Usa importeranno dall’Italia prodotti del Bello e Ben Fatto per 13 miliardi di euro. Sia in termini assoluti (2,8 miliardi), sia relativi (+28%) è qui che le imprese metteranno a segno le migliori prestazioni, confermando gli Usa al primo posto nella classifica delle destinazioni. L’ambasciatore americano Michael Froman, che, per conto dell’Amministrazione Obama, ha curato le trattative con l’Unione Europea per il Trattato di libero scambio TTIP, da cui poi Donadl Trump ha ritirato gli Stati Uniti, ha spiegato in un’intervista perché i settori del Bello e Ben Fatto non devono temere la dottrina dell’America First: “Il 90% delle scarpe che indossiamo negli States è importato. Nell’oro, nell’occhialeria, nei mobili la produzione americana è modesta. Nonostante i proclami non credo che su questi fronti si aprirà mai una guerra commerciale”. Qualora ciò avvenisse comunque, il Centro Studi Confindustria, insieme a Prometeia, ha cercato di calcolare gli impatti. L’ipotesi peggiore è che i dazi medi pagati dalle imprese italiane tornino ai livelli del 1989. Ebbene anche in questo caso l’export del bello e ben fatto aumenterebbe. Non arriverebbe ai 13 miliardi attesi senza una guerra commerciale, ma toccherebbe comunque gli 11,6 miliardi, ossia 1,8 miliardi in più rispetto ai livelli attuali. A pagare il prezzo di una crescita più ridimensionata sarebbe soprattutto il comparto alimentare che lascerebbe sul terreno 500 milioni di euro. Per il resto, invece, l’Italia subirebbe una limatura delle variazioni mediamente inferiore a quella con cui dovrebbero fare i conti altri competitor come la Cina. “In questo differenziale - spiega Confindustria - c’è la forza del Bello e Ben Fatto nazionale il cui prezzo è meno rilevante nel determinare una domanda in cerca più di qualità che di risparmio”.
Non è comunque quello di una lotta con l’Europa combattuta a suon di dazi o di tasse all’import per finanziare la riforma fiscale voluta da Trump lo scenario più probabile secondo il Centro Studi Confindustria: “Le imprese italiane dovranno probabilmente confrontarsi con inasprimenti sottili (certificazioni ulteriori, allungamento dei tempi, nuovi passaggi burocratici), che non cambieranno però gli ordini di grandezza della domanda di beni importati dall’estero”. Semmai il vero rischio sarà una più complessa gestione delle attività. Ma sta i di fatto che, comunque, Trump non riuscirà a fermare l’export della dolce vita. Anche perché non ne ha nessun interesse. “L’indispensabile superfluo” piace troppo al suo elettorato.

 

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