Il mosaico e il vetro sono materia che trasforma in opere inarrivabili per armonia e colori. Le sue grafiche e i suoi “Lumen” sono ormai un simbolo riconosciuto in tutto il mondo. Intervista al pittore e scultore varesino che si racconta a partire dal rapporto con suo padre Angelo, anche lui artista e cantore di una classicità imponente

Vittore Frattini, varesino di nascita nel 1937, ancora oggi è in piena attività nella sua piccola patria di Sant’Ambrogio Olona. Pittore e scultore come il padre Angelo, cantore di una classicità imponente e raffinata, venata di lirismo e leggerezza, ha raccolto gli insegnamenti ricevuti dai grandi, artisti e personaggi del mondo della cultura, conosciuti e frequentati fin dall’adolescenza. Ma ha trovato e seguìto ben presto una strada tutta sua, dalla prima mostra personale a Sanremo del 1957, mantenendo una cifra stilistica immediatamente riconoscibile per pulizia di narrazione, pur nella ricchezza e varietà di temi e tecniche. Il mosaico e il vetro sono stati per lui materia di sculture inarrivabili, in armonia di colori e forma. Ha esposto ed è stato premiato da prestigiosi musei, in Italia e all’estero, in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, in Canada, negli Stati Uniti. La nostra città ospita sue pitture nelle raccolte d’arte cittadine e - in luoghi aperti - sculture e mosaici da lui dedicati a istituzioni e personaggi della storia varesina. 
Le sue grafiche e i Lumen (opere con speciale effetto notturno), apprezzatissimi da Piero Chiara e Giuseppe Panza, e presenti nella sua collezione, sono, più che mai oggi, simbolo e faro di luce.   

Nulla dies sine linea è il significativo titolo della mostra del 2018 a Villa Mirabello e anche quello di una pubblicazione di Nomos curata da Max Frattini, suo figlio, con prefazione di Philippe Daverio in occasione dei tuoi ottanta anni. C’è tutto il senso dell’infinito e scrupoloso lavoro di una vita dedicata all’arte. Da dove le piacerebbe iniziare a raccontarla?
Mi piacerebbe raccontarla proprio da mio padre, quando stava eseguendo il Ritratto di Piero Chiara, nel 1950 ed io avevo 13 anni. Già allora, nel suo studio, lo aiutavo a tenere la “terra creta” ben umida. Uomo di grande bontà, ho sempre osservato con lui un rapporto rispettoso. E nel lavoro l’ho quasi sempre voluto vicino, come avvenne in una Rassegna di Artisti Italiani negli Stati Uniti, nel 1965 (con invito alla Casa Bianca). Fu quello un momento davvero speciale della mia vita.
 
Non solo genitore affettuoso, ma anche maestro e collega di lavoro è stato per lei papà Angelo.
Sì, posso dire che ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione.  E poi, via via che il mio percorso artistico procedeva, ci raffrontavamo o scambiavamo idee: a volte io attingevo a lui, a volte era lui a inseguire una mia idea sviluppandola poi secondo la sua visione. Oggi posso dire di essere stato per lui un buon gregario. Nel suo studio ho avuto occasione di conoscere artisti come Flaminio Bertoni, Renato Guttuso e Lucio Fontana. Mio padre e Flaminio avevano l’abitudine, da giovanissimi, di andare al Campo dei Fiori e scolpire all’ombra del Grand Hotel. Non avendo la possibilità di acquistare il marmo, costava troppo per loro, si esercitavano a lavorare la pietra sul posto. Hanno lasciato lì sculture che nel tempo sono andate perdute. 

Altre persone e incontri, magari inattesi, hanno particolarmente contato nel suo percorso?
Con Luigi Carluccio, curatore di mostre storiche al Museo di Torino, ho avuto il mio primo grande riconoscimento nel 1963. Ne nacque una sincera amicizia. Con Piero Chiara è nato poi un rapporto speciale, grazie all’amico Mauro della Porta Raffo. Con lo scrittore realizzai il “Mini Pocket”che rappresenta  il passaggio del mio lavoro da una Pittura atmosferica  ai  “ Lumen”. Tra i miei primi sostenitori ebbi l’onore di avere il Conte Giuseppe Panza di Biumo e la moglie Giovanna. Con loro ci fu un rapporto di stima e amicizia. Curioso e davvero emozionante per me era stato poi l’incontro con Carlo Carrà. Esponevo alla Permanente di Milano, era il 1965, nella sala dedicata ai giovani artisti. All’uscita, mentre parlavo con i colleghi, intravvidi un signore anziano, dai capelli bianchi, che cercava a fatica di attraversare la strada. Pensai di andare in suo soccorso e lui si appoggiò a me, riconoscente per l’aiuto offerto. Vedendolo in ulteriore difficoltà gli proposi di accompagnarlo fino a casa. Alla fine, si presentò: sono Carlo Carrà. Sorpreso e commosso gli dissi: maestro, è stato un grande onore per me conoscerla. E lui mi invitò a casa sua. 

Lei è stato insegnante a Brera, dopo il diploma, e ha fondato e guidato per anni il liceo artistico varesino. Ha saputo cogliere al meglio quanto la scuola offre, pur assecondando un’arte libera e personalissima che ha raggiunto, forse proprio nei Lumen, il suo punto più alto.  
Ho iniziato a insegnare a Brera, come assistente, nel 1961, poi sono rimasto per sette anni al Liceo Artistico di Busto Arsizio, prima della fondazione del Liceo Artistico a Varese, nel 1969. L’insegnamento delle basi dell’arte è sempre stato un ulteriore stimolo per il mio lavoro.

Lei è poliedrico, dalla grafica all’acquerello, dalla pittura alla scultura, nel pieno possesso del segno e dei vari materiali e colori. A volte rivela un lirismo che pare inerpicarsi all’infinito verso algide cime di sublimazione e solitudine. A volte sorprende con esplosioni cromatiche, girandole di fuoco e di luce che accendono il cuore: come nei mosaici o nei suoi magici lavori in vetro di Murano. La sua arte sembra conoscere picchi di interessi e sentimento molto diversi tra loro, lasciando traccia di un diagramma emozionale sensibilissimo al vento della  vita...
Ho realizzato numerose pubblicazioni di grafica partendo dal 1959, molte edite con Giorgio Upiglio, presentate, tra gli altri, da Aldo Patocchi, Franco Russoli, Piero Chiara, Roberto Sanesi, Vanni Scheiwiller, Renzo Modesti e Mario Luzi. Alla scultura sono arrivato più tardi, anche per evitare un confronto con mio padre, che ancora oggi mi stupisce con le sue opere. Le mie opere più impegnative, di grandi dimensioni, le ho potute realizzare grazie a un ottimo “team” di lavoro diretto da mio fratello Gigi e dai miei figli: dal Monumento a Giovanni Borghi, collocato nella rotonda di fronte allo Stadio di Varese, alla Grande V di Malpensa, i cui bozzetti sono stati esposti alla mia Mostra al Museo di Spoleto, nel 2005.

C’è un evento, e un luogo, della sua vita di artista che porta più che mai nel cuore?
L’invito ricevuto con mia moglie Silvana all’ambasciata italiana a Washington dopo la mia mostra personale alla Georgetown University.

Il suo rapporto con Varese è quello di un artista con le radici ben fisse in questa terra, una “Plaga benedetta da Dio”, come scriveva Montanari, che le vuole bene perché lei continua a darle tanto. Le tue opere, in luoghi significativi della città, ci rallegrano la vita. Anche la Grande V di Malpensa è un simbolo ormai irrinunciabile per il nostro territorio. Quali sorprese ha ancora in serbo per la sua città? Sappiamo che ha lavorato molto in questo periodo di clausura, tra le pareti del suo studio...
Recentemente, è proprio così, per reagire a questo triste momento, ricordando con stima ed affetto Philippe Daverio ed il titolo che aveva scelto per l’introduzione della mia monografia – “Nulla Dies Sine Linea – non mi fermo! Ogni giorno traccio un segno. Ultimi in ordine di tempo, una tela Lumen su sfondo chiaro lunga 4 metri e un grande Lumen Rosso al quale tengo molto. Per quanto riguarda invece la mia città, porto nel cuore i mosaici come quello per il palazzo del Molina o l’altro, eseguito con il maestro Luigi Veronesi, nelle vicinanze di via Morosini.  

Vittore Frattini, da vero minimalista, chiosa così in semplicità la sua intervista per noi. Eppure, Maestro, chissà? Nulla Dies sine Linea. Noi ci aspettiamo ancora qualche sorpresa: in una Varese che si sta finalmente rinnovando abbiamo bisogno di nuove testimonianze dei nostri migliori artisti. E di speranza. 

 



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