L’uomo-del-mulino-di-Cunardo

Da Napoleone Bonaparte, attraversando due conflitti mondiali fino ad arrivare ai giorni nostri: ne è passata di acqua sotto le ruote del frantoio e delle macine del “Molino Barzago”, fedelmente custodito da Riccardo Rigamonti da quasi 70 anni 

Rivoluzione Francese e post sui social; Restaurazione, Novecento fino ad arrivare ai nostri giorni. Ne è passata tanta di acqua del Margorabbia fra le pale del mulino Rigamonti, gioiello d’ingegneria da secoli che ancora oggi si può ammirare in un piccolo mondo antico dai colori intensi, fra il cielo della Valganna e le “gibigiane” dei giri d’acqua riflesse sui muri a secco. Scrive Mario Carmagnola, proprio sulla fornitissima pagina social del mulino di Cunardo: “È passato Napoleone, le guerre di indipendenza, è passato Garibaldi, le due guerre mondiali, ma l’acqua della gora ha sempre alimentato le ruote del frantoio e delle macine sin dal 1787, quando divenne di proprietà dei Rigamonti assumendo il nome di ‘Molino Barzago’. Tant’è che Riccardo, l’ultimo della dinastia dei ‘Barzag mugnai’, continua la tradizione di famiglia nonostante la globalizzazione, le multinazionali, la grande distribuzione. Prima di aprire il cancello di ingresso al negozio storico, con secoli di storia alle spalle, apre la porta dove le oche trascorrono la notte, lasciandole libere sino a sera quando richiude il cancello e le chiama per riportarle a dormire. Le due oche del mulino sono da anni la miglior insegna per un’attività che è garanzia di competenza e genuinità dei prodotti”. 

È proprio questo che si respira ogni giorno da quelle parti e Riccardo Rigamonti, classe 1937, ha una vita da raccontare perché lui, per tutti, è l’uomo del mulino. Primi ricordi? “Beh, ero piccolo, molto piccolo: ricordo il grande lavoro delle macine governate da papà Ettore e zio Luigi, che morì appena dopo la guerra. Allora erano in tanti, tutti a lavorare i campi. C’era bisogno di cibo e si lavorava la terra. Nel momento del raccolto del frumento e del mais venivano a macinare qui e c’era tantissimo lavoro”. Archiviate le “tre commerciali”, alle soglie degli anni ‘50 ecco che Riccardo entra in azienda. “Ad esser precisi i Rigamonti sono proprietari di questo mulino dal 1785. Abbiamo ancora le carte custodite da una delle mie tre figlie, documenti originali vergati con inchiostro e penna d’oca: siamo sempre stati qui a macinare, da generazioni, anche se i tempi sono cambiati”, racconta il mugnaio della Valganna mentre dà una mano nell’inaspettato ruolo di parcheggiatore. L’allarme sanitario ha fatto irruzione anche nella vita di questo solido artigiano della farina imponendo misure strette per la gestione degli spazi: “Non più di 5 auto alla volta nel parcheggio del piazzale, così vuole la legge”. E la legge si rispetta anche per chi deve fare un salto a comprare il terriccio per il giardino o le piantine di pomodoro. “Sì, vendiamo anche questi prodotti da qualche tempo e offriamo ai nostri clienti anche materiale per giardinaggio o per l’orto, il lavoro è molto cambiato nell’arco degli ultimi anni”.

Un pezzo di storia in carne ed ossa è Riccardo Rigamonti, mentre in pietra e acqua è la sua creatura viva e vegeta dopo oltre due secoli di servizio e tornata preziosissima anche ai tempi del lockdown

E il racconto non può che passare dai fatti attraversati dall’economia di una terra di frontiera. “Tanti da queste parti a partire dagli anni ‘60 hanno scelto la Svizzera, lasciando i campi: meglio un lavoro in franchi che la fatica delle sveglie all’alba, magari le bestie, il caldo e i lunghi inverni. E anche la nostra attività di conseguenza ha seguito questo ritmo. Prima il lavoro era incentrato solo sulla macinazione e avevamo anche un torchio per l’olio. Ai tempi si faceva con mandorle, ravizzone, nocciole e noci. Col passare degli anni tutto è cambiato, il torchio è stato eliminato perché ogni volta prima delle lavorazioni era necessario chiamare la Finanza da Como per farlo piombare e spiombare: era diventata una pratica macchinosa e lo abbiamo dismesso. Oggi in pochissimi vengono a far macinare il frutto dei loro campi, succede ancora per pochi agricoltori della Valcuvia che portano il gran turco, quello per fare la polenta, per intenderci. Il frumento è sparito, mentre una volta arrivavano i carri coi sacchi, per tornare a ritirare la farina bianca”.

Oggi il mulino, che continua a funzionare ad acqua per muovere la macina a due palmenti prosegue instancabile nel suo lavoro, ma il mais viene acquistato dai grossisti “a seconda delle esigenze richieste dal mercato”. Un pezzo di storia in carne ed ossa è Riccardo, mentre in pietra e acqua è la sua creatura viva e vegeta dopo oltre due secoli di servizio e tornata preziosissima anche ai tempi del lockdown. “Abbiamo lavorato molto in questi mesi. La farina non si trovava nei supermercati e non abbiamo mai chiuso. Anzi, abbiamo rifornito tante famiglie anche col servizio di consegne a domicilio”. Sì, la polenta, piatto che fino a pochi mesi fa era visto come calda fonte di gioia per i buongustai è tornata in questi mesi come sicuro ripiego sulle tavole dell’incertezza, magari proprio guardando anche al risparmio per un piatto ricco e al contempo accessibile e alla portata di ogni tasca come è stato per generazioni di varesini che trovavano sostentamento da questo cibo del colore del sole. E ora, come allora, il mulino di Riccardo è sempre lì. 



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