musignano e i suoi personaggni di legno.jpg

La strada che sale a Musignano è come una lingua di prosciutto tra due fette di pane: la terra e il cielo. Serpeggia tra i castagneti e Maccagno diventa più piccola a ogni curva, lontana là in basso, mentre la lastra specchiante del lago abbaglia la vista, e quei puntini scuri sono i Castelli di Cannero dove il giovane Piero Chiara approdava con la sua piccola vela assieme a qualche bella fedifraga.  
Musignano è la meta, ma la Val Veddasca regala il fascino di un’antica beltà, anche se la stagione dei fiori è ancora acerba e il colore arriva soltanto dalle primule, dai campanellini e dall’occhieggiare delle pervinche al limitare dei boschi. Nei giardini delle villette dei tedeschi esposte a mezzogiorno qualche camelia veste già il rosso della festa. Ecco Campagnano, con la prima bella vista sul Maggiore, che da qui appare enorme, incastonato tra i monti, con la punta di Caldé che svetta come un piccolo Pan di Zucchero. La colonia teutonica è forte, i pronipoti di Goethe adorano i nostri laghi dai tempi del Grand Tour, così arrivano al levar dell’estate per passarla tra acqua e terra, spalancando le finestre al sole d’Italia.

Sopra Maccagno, una frazione di soli 20 abitanti cerca di ripopolarsi non con persone in carne e ossa. Quelle se ne sono andate da tempo, come i turisti delle seconde case. Ora i nuovi residenti sono le sculture di mestieranti del 66enne Fabio Maccario

Il bivio è già alle spalle: si è scelto di prendere a sinistra, a destra si va per Garabiolo e Cadero, lì vince la colonia olandese e negli anni ‘90 a Garabioeu c’era il museo etnografico del Graziano Ballinari, il più grande (e l’unico) cessologo e mutandologo italiano, che portava nella valle gente a frotte, perfino dalla Svizzera tedesca. Belle ragazze in costume tradizionale della valle e una tazza
di tisana d’erbe miste, il Graziano che raccontava gli antichi mestieri e mostrava ogni sorta di attrezzo rustico, perfino il bidet violetto del glorioso bordello di Luino, forse quello di Mama Rosa raccontato nel “Piatto piange”. A Musignano ci andiamo per vedere uomini e donne di legno, sagome indurite dal tempo, l’arrotino, il cardatore, il cacciatore, il falegname, la vecchina che fila la lana, perfino il Ramon, uno spagnolo fuggito dalla guerra civile. Sono lì, estate e inverno, a raccontare di un paese spopolato, dei castagneti non più curati come campi da golf, dei boschi lasciati ai rovi, dei giovani che se ne vanno dalla valle perché i lavori di un tempo non ci sono più. Una popolazione lignea e attonita, alla quale il vento porta via i capelli di stoppa, ma resistente alla modernità stolta e omologante, montagnini laconici e ruvidi, come lo erano i loro simili in carne e ossa in un tempo che appare infinitamente remoto.

Fabio Maccario ha 66 anni ed è in pensione dopo aver lavorato come carrozziere a Maccagno, dove ha ancora l’officina, ma il suo spirito si accende a Musignano, nella splendida casa di montagna dove ha raccolto i frutti della sua passione per le vecchie cose. È lui che va per i boschi in cerca dei tronchi dei castagni morti, pezzi di legno duri come acciaio, quasi calcinati, che a volte regalano sagome umane, volti, braccia, gambe. Li raccoglie e li studia, cerca di capire quale lavorante possa uscir fuori dal legno, una lavandaia inginocchiata a sciorinare i panni o magari “ul materassée”, o ancora il pastore con le sue pecore. Maccario ha fatto tutto da solo quando ha deciso di ripopolare il paese, che di abitanti oggi ne ha una ventina e non tutti residenti tutto l’anno. Non ha chiesto niente a nessuno, e nessuno gli ha chiesto niente, così da un giorno all’altro le stradine di Musignano hanno incominciato a essere percorse da strani individui, un po’ maschere e un po’ burattini, dei “pinocchi” invecchiati con la pipa in bocca e le mani affaccendate in mille mestieri.

 

 

“Cerco i tronchi dei castagni secolari, magari forati dal becco dei picchi, i soli che servono al mio scopo. Molti hanno già una sagoma vagamente umana, così non serve molto lavoro per creare un personaggio. Una volta sagomata la testa (spesso già scolpita dalla natura, altre volte lavorata da me) assemblo le altre parti del corpo, ma senza viti, soltanto con tasselli di legno. Per lo più sono le persone del paese, o almeno le loro caricature: la Vera, l’Ugo, la Clementina e l’Erminia, il Carlo e il Nino, la Teresa e il Nanetti, il Rinaldo cacciatore con il suo cane Pelé, e naturalmente ci sono anch’io, seduto sulla soglia di casa”. Non manca l’Impiccato, come nella migliore tradizione dei tarocchi, e nemmeno il tocco erotico, con i “dü boschiroo”, i due boscaioli che all’ingresso del paese segano un tronco di abete con tanto di attributi di fuori. “Le donne ridono e si fermano a farsi una fotografia con i due super dotati. Ho avuto dei guai a una spalla, così non ho più fatto la manutenzione dei miei amici di legno, adesso dovrò restaurarli uno per uno, le intemperie li danneggiano, soprattutto i capelli e gli ‘abiti’ che alcuni portano. Nella mia ex officina di carrozziere ho tutto ciò che mi serve”, spiega Fabio Maccario.

Maccario va per i boschi in cerca dei tronchi di castagni morti, pezzi di legno duri come acciaio, quasi calcinati, che a volte regalano sagome umane, volti, braccia, gambe

Girando per le viuzze di Musignano incontriamo uno dei suoi abitanti stanziali, Marco Morandi, con la moglie Nadia Sassaroli e la madre, la Teresa “scolpita” dalla natura e dall’intuizione di Maccaro.
“Qui ci sono venti persone, non di più, compresa una coppia di tedeschi. Un tempo il paese contava 400 abitanti e faceva comune poi, nel 1927, i residenti erano molti meno così si decise di unirlo a Maccagno. Fino a 30 anni fa c’era il turismo delle seconde case, i milanesi vi trascorrevano l’estate, la villeggiatura di una volta insomma. Poi è cambiata la moda, e i proprietari hanno incominciato ad affittare a tedeschi e olandesi, ma oggi è un momento di stanca anche per questo genere di soggiorno”, dice Morandi. “Del resto per stare a Musignano in estate non bisogna avere molte esigenze, negozi non ce ne sono, l’ultimo chiuse mezzo secolo fa così come l’unica trattoria, e in tutta la valle contiamo soltanto un circolo a Garabiolo e Cadero e un ristorante ad Armio. Però passano diversi turisti, gli stranieri sono agguerritissimi, arrivano con carte militari dettagliate e vogliono sapere che fine hanno fatto i sentieri che vi sono riportati. Non ci sono quasi più, cancellati dai rovi e dall’incuria, nessuno pulisce più i boschi, ma ricordo quando lungo la mulattiera per la Capela de Scima (la Cappella della Cima) c’erano campi coltivati. Una volta eravamo una grande famiglia, nella bella stagione si facevano grandi tavolate all’aperto. Ora sono rimaste due feste tradizionali, quella di San Bernardino, la prima settimana di agosto, e della Madonna del Pane, alla Cappellona verso Maccagno, l’ultima domenica di luglio”.

Per due anni gli uomini e le donne di legno di Fabio Maccario hanno fatto da comparse nel presepe allestito nella chiesetta del paese: “Era molto suggestivo, perché appena si entrava si diventava parte di esso, tutt’uno con l’ambiente”. Il carrozziere scultore di uomini ci presenta poi un se stesso di castagno vecchio seduto davanti alla porta di casa, con tanto di cappello e sciarpetta e un secchio in mano. Nel portico ha allestito un tavolo da osteria con i giocatori di carte, mentre intorno c’è chi costruisce le gambe delle sedie e chi sgrana il granturco, con gli attrezzi originali rinvenuti nelle cascine della valle. “Ho un sogno, di creare un museo degli antichi mestieri, sto cercando uno spazio adatto. Negli anni ho raccolto attrezzi e macchinari, voglio che rimanga la memoria di chi li adoperò con enormi sacrifici”. Il giro è finito, il torrente Ca’ de Tera salta nel lago dove c’è la centrale di Roncovalgrande che carica l’acqua nel Delio, e mormora in sottofondo mentre imperterrita la “lavandera” di Maccario fa il suo eterno bucato. Si scende, e Maccagno incomincia a intravedersi tra una curva e l’altra, nella prima foschia della sera, mentre un picchio tambureggia lontano. I minuti ricominciano a scorrere veloci, troppo, dopo che la luce e le ombre, soltanto, avevano ritmato il nostro pomeriggio. E nella discesa ci riafferra l’illusione che la velocità liberandoci dallo spazio ci liberi del tempo.



Articolo precedente Articolo successivo
Edit