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Potrebbe nascere a Varese la prima startup di moda in Europa basata sul lavoro di un gruppo di ragazzi, la maggior parte dei quali affetti da disabilità cognitive e relazionali. Il business è la realizzazione di capi di abbigliamento in stile streetwear. 

‘‘Quando a tuo figlio certificano una disabilità è come se ti colpisse un’energia negativa che ti blocca. Come un buco nero che, da una parte, ti risucchia e, dall’altra, allontana persone che prima ti erano vicine”. È il 2009 quando Davide Macchi, titolare dell’azienda Mobile Solutions Srl, software house di Varese, scopre la condizione del suo terzo figlio, dopo poche settimane sarebbe nata la quarta figlia. Un’esperienza personale che si fa insegnamento: “La nostra società è incuneata in un immobilismo che non dà dignità alle persone affette da handicap. Non ci riesce perché da una parte ci interessiamo al dolore degli altri solo quando lo stesso dolore tocca noi o un nostro caro. Dall’altra quando vieni travolto in prima persona da queste situazioni respingi qualsiasi aiuto o tentativo di partecipazione nascondendoti dietro alla giustificazione che tanto gli altri non ti possono capire”.

Per Davide Macchi la soluzione a questa impasse sociale è l’impresa. Da qui l’idea: creare la prima startup di moda in Europa dedita all’ideazione e commercializzazione di collezioni di abiti in stile streetwear che impieghi come addetti soprattutto ragazzi con disabilità cognitive e relazionali: “Con un gruppo di persone abbiamo deciso di provare a trasformare un problema in una soluzione, un’idea in azione: siamo partiti da un progetto di formazione ed inserimento lavorativo per ragazzi con disabilità cognitiva, che è cresciuto nel tempo insieme alla consapevolezza e all’entusiasmo dei ragazzi, e siamo arrivati oggi a fare i primi passi per creare un’azienda. Un’azienda al contrario che parte dai ragazzi, dalle loro abilità, aspirazioni, idee, dal loro lato artistico ed emotivo, riversate in felpe e t-shirt. Un’attività riservata a individui con disabilità cognitiva e a loro coetanei ‘normodotati’ che trovano in questo progetto il luogo della loro espressione e del loro futuro di persone che lavorano”.

L'idea dell’imprenditore Davide Macchi: “Non cerchiamo la carità di nessuno, vogliamo stare sul mercato”. Burocrazia permettendo

Non una cooperativa, non un’associazione “ma una vera e propria azienda con un conto economico che stia in piedi da solo sulla base di un business plan sostenibile a livello finanziario e capace di creare profitto”. Perché in questo caso il riscatto sociale dei ragazzi e la creazione per loro di un futuro deve avvenire “senza pietismo e senza carità, ma grazie ad un mercato che ne riconosca le capacità e li premi con un lavoro, uno stipendio e una remunerazione per i soci che credono in questo progetto imprenditoriale”.  Una startup, dunque, che vuole creare una vera linea di abbigliamento streetwear e diventare un vero brand e che, come tutti i brand di successo, generi profitto e opportunità di lavoro. Il fine sociale rimane: “L’idea è quella di un’azienda che abbia uno statuto ben preciso. Io in qualità di socio non prenderò un euro di profitto. Gli utili, andranno per metà ai soci investitori, mentre la restante metà servirà a finanziare progetti welfare per i dipendenti”.

Dietro il progetto c’è uno studio, un business plan, che aspetta solo di essere messo alla prova dei fatti. Anche il nome è già stato scelto per l’azienda e per il brand di felpe, magliette e cappellini: Pappaluga. Una non-parola. Un termine che significa tutto e il contrario di tutto. Che racchiude un mondo. Quello del figlio di Davide: “È il termine con il quale schernisce i suoi fratelli, ma che racconta l’unicità di ogni individuo”. Anche per questo, per sottolineare il significato dell’unicità, ogni capo di abbigliamento Pappaluga è finito con una cucitura fatta a mano. “Un messaggio e un’emozione in ogni filo cucito”, spiega Davide.

In realtà Pappaluga non parte da zero. Oggi infatti il brand già esiste: “Abbiamo distribuito qualche maglietta e qualche felpa nei licei di Varese, nulla di che, pochi capi risultato di un progetto di alternanza scuola-lavoro realizzato con il Cfpil (Centro Formazione Professionale ed Inserimento Lavorativo) dell’Agenzia Formativa della Provincia di Varese e con il Liceo Classico Cairoli di Varese”. Ma ora l’obiettivo è più ambizioso: dar vita ad un’impresa. Ma perché proprio nel campo della moda? “C’è dietro uno studio di fattibilità e del mercato”, racconta Davide. Motivi, economici e imprenditoriali, appunto. Nello stile del progetto. Anche qui, lo sguardo è al conto economico. Sostenibile sì, ma comunque solidale, almeno nel fine: noi vogliamo essere diversi, indicare un’altra strada percorribile, dove il lavoro non è fine a se stesso ed i talenti delle persone vengano riconosciuti e valorizzati. Lavorare con uno scopo e in quanto tale dare uno scopo a chi opera in Pappaluga.

La distribuzione dei capi streetwear Pappaluga avverrà con l’eCommerce. Con tirature limitate di poche centinaia di prodotti per volta. “Oggi raccontiamo la nostra storia per dare forza alla nostra idea, ma quando saremo operativi e sul mercato nulla nella nostra attività di promozione, marketing e commercializzazione farà riferimento agli handicap e alle storie delle persone che lavoreranno in Pappaluga. Chi comprerà un nostro capo lo dovrà fare perché gli piace, non per pietà”. 
Ma come sempre, quando si parla di disabilità gli ostacoli non mancano. In questo caso le barriere sono quelle burocratiche per la costituzione della società e per la sua operatività: “L’obiezione maggiore – racconta Davide – è quella dell’incomprensione di fronte a qualcosa di mai visto o sperimentato. ‘Perché non fai una cooperativa’, mi dicono. Ma noi vogliamo mettere in piedi un progetto diverso, innovativo. Non vogliamo dare assistenza ma un futuro a dei giovani di talento”. L’intento, pur originale, sembra del tutto comprensibile e dà valore al concetto stesso di impresa. “Eppure, agli sportelli della burocrazia mi guardano esterrefatti, non capiscono, scuotono la testa, dicono non si può”. Come dire: è vero che siamo tutti dei pappaluga (non per niente il profilo Instagram è @iampappaluga). Ma non esageriamo. 



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