Il protagonismo della Cina, i colpi di Trump al multilateralismo, un’Europa senza capacità di narrazione. Il Coronavirus mette in evidenza trasformazioni che in realtà erano già in atto

Cosa lascerà in eredità sullo scenario geopolitico la pandemia in corso? Il Coronavirus sembra essere stato più un reagente, ovvero qualcosa che accelera e mette in evidenza fenomeni già in essere, che non uno tsunami. La fotografia scattata in piena diffusione del virus mostra l’America distante, la Cina in cerca di un ruolo forte e una Unione europea che cammina sul filo della sua stessa sopravvivenza come entità politica. L’uscita dal tunnel? Potrà risolversi a favore dell’ascesa della Cina a superpotenza mondiale oppure a favore di una rivalsa dell’Occidente con Stati Uniti e Unione europea di nuovo protagonisti.

 

Tsunami o “reagente”?

Non è stata la pandemia a spazzare via, nella relazione tra Stati, il modello multilaterale nato come conseguenza della Seconda guerra mondiale. Piuttosto la pandemia ha “tolto il velo”, mettendo a nudo come istituzioni e meccanismi, nati 75 anni fa, si fossero inceppati. “Da tempo – spiega Nicola Bilotta, ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali – ci si era resi conto che avevamo a che fare con paradigmi superati: pensiamo alla retorica della globalizzazione, con l’enfasi sui suoi effetti positivi per la crescita della prosperità dei Paesi meno sviluppati, che ha rivelato con il tempo anche il rovescio della medaglia, ovvero la crescita delle diseguaglianze e i tanti problemi ambientali connessi. Lo stesso si può dire del modello multilaterale. Erano anni che ci si interrogava sulla sua effettiva capacità di risposta rispetto ad alcuni temi emergenti”. Il modello multilaterale a cui si fa riferimento è quello nato dopo la Seconda guerra mondiale e che ha fatto perno sulle istituzioni internazionali come Onu, Nato o Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio). Qui si mette al centro la negoziazione tra tanti Paesi come luogo di composizione degli interessi. È il modello della comunità internazionale contrapposto a quello di rapporti che si consumano a livello bilaterale, tra i Paesi. Su alcuni temi recenti e cruciali, ad esempio quello delle tecnologie, gli interessi di Stati Uniti, Cina ed Europa sono apparsi inconciliabili. Covid-19 non ha fatto altro che far emergere in maniera più evidente questo punto di rottura del modello. Ma se la risposta multilaterale non funziona più, ci sono delle ragioni precise. Con buona pace di tutti il mondo resta comunque globalizzato, interconnesso e, come dimostrato dagli avvenimenti, profondamente vulnerabile. Ed è a questa realtà che bisognerà dare risposte anche in futuro: sul come farlo la partita è aperta tra reazioni di chiusura e prospettive di maggiore collaborazione.

Chi si ritira (Usa) e chi fa un passo avanti (Cina)

Protagonisti indiscussi del multilateralismo sono stati gli Usa e a segnare il cambio di passo non è stato il virus, bensì l’elezione di Donald Trump. “Trump è stato il più grande detrattore di questo schema – spiega Bilotta – non solo ha ingaggiato una guerra commerciale con la Cina, ma ha anche usato il tema del commercio come arma diplomatica nei rapporti con gli altri Paesi e con l’Europa, minacciando dazi e chiusure, potendo contare su di un mercato interno molto ampio e con grande capacità di spesa”. D’altro canto, le spinte nazionaliste e la disgregazione, pensiamo anche alla Brexit, sono il segno dei nostri tempi ben da prima che scoppiasse la pandemia. L’affermarsi, sulla scena mondiale, di governi filo nazionalisti e di leader che sposano questo tipo di posizione, è chiaramente un segno di sempre maggior indebolimento del modello multilaterale e di sempre maggiore chiusura. Così quello che si registra adesso è la prima grande crisi mondiale nella quale gli Stati Uniti si stanno chiamando fuori dai giochi, con la prospettiva tuttavia delle prossime elezioni americane che, in autunno, potrebbero anche portare delle novità importanti. Nel vuoto creatosi sullo scacchiere internazionale, la Cina di Xi ha cercato sempre più di guadagnare il suo spazio. “La Cina – spiega Bilotta – si è fatta avanti a difesa del libero commercio e del multilateralismo, nonostante le mancasse una legittimità internazionale per agire con questo ruolo. In questo senso va letta, ad esempio, una iniziativa come la ‘Belt and Road Initiative’, progetto d’investimenti che ha una valenza politica e simbolica fortissima in termini di affermazione della influenza cinese sullo scacchiere internazionale”. Su questo punto la vera sorpresa oggi è che questo disegno non solo non è venuto meno con la pandemia, ma la Cina sta riuscendo a guadagnare una sua credibilità nonostante sia il Paese da cui è partita una così devastante crisi che sta mettendo in ginocchio l’intero pianeta. “L’operazione di immagine messa in atto – dice ancora Bilotta – è stata straordinaria da parte della Cina. L’arrivo dei medici, delle mascherine, dei macchinari ha creato nell’immaginario collettivo una narrazione che ha messo in ombra tutto il resto”. Ma chiaramente questa operazione ha avuto anche la valenza di rilanciare l’economia del centro produttivo dello Hubei. La scommessa dunque per la Cina è ancora aperta: affermarsi come nuovo perno nelle relazioni internazionali, in grado di assumere un ruolo di leadership mondiale basato su anni di crescita economica ininterrotta. I punti a suo favore in questo momento sono molti, ma le ombre certo non mancano.

Capitolo Unione europea

Quello su cui l’Unione europea è scivolata fin da principio è esattamente ciò su cui la Cina ha costruito il suo successo, ovvero la capacità di comunicare e gestire la sua immagine. “Da subito l’Europa si presenta disunita, manda messaggi contraddittori e non riesce a comunicare quello che sta facendo. Pensiamo a quanto ha affermato la Lagarde nei primi giorni della crisi, con il suo atteggiamento anni luce lontano da quello del ‘whatever it takes’ del suo predecessore Mario Draghi e una gaffe che ha gettato nel panico i mercati, quando era necessario esattamente l’opposto”. Nei fatti però la Bce ha, subito dopo, messo sul piatto i primi ingenti stanziamenti dando l’ossigeno per correre nell’emergenza. A marzo la Banca centrale europea ha comprato titoli pubblici e privati per 51 miliardi: di questi il 35% è andato a sostegno di titoli italiani (11,8 miliardi). “Si può discutere sul fatto che si potesse fare di più – commenta Bilotta – e si può parlare di quello che ancora resta da fare, ma non si può dire che non ci sia stato un aiuto”. Il vero problema o meglio il vero corto circuito si è creato quando le decisioni da prendere sono giunte al livello “politico”, laddove siedono i ministri dei singoli Governi nazionali. Qui il cuore delle istituzioni europee si è mostrato per quello che è: un insieme di Paesi che faticano a vedere un “bene comune europeo”, ma guardano ciascuno al suo interno. “Qualcosa si è mosso anche sotto questo profilo – nota Bilotta – perché anche nei Paesi più restii a certe scelte, come la Germania, si sono alzate voci favorevoli agli aiuti verso i Paesi più in difficoltà. Conte stesso ha concesso interviste direttamente ai giornali tedeschi cercando un filo diretto senza precedenti”. Un sondaggio ZDF rivela che il 68% dei tedeschi è favorevole a un aiuto finanziario verso i Paesi più colpiti dalla crisi come Italia e Spagna. La decisione finale sugli aiuti economici post Covid-19 è alla fine frutto di una strenua negoziazione tra i ministri delle Finanze prima e i capi di Governo poi schierati nei due gruppi ribattezzati “del nord” (con Germania e Olanda in testa) e del sud. “Non va dimenticato che in quest’ultimo gruppo, del quale l’Italia è parte, sono compresi 9 Paesi che da soli rappresentano il 59% del Pil dell’Eurozona”. Quel che è certo è che il Coronavirus potrebbe appunto agire come reagente e far evolvere finalmente l’Ue verso un modello veramente più coeso e solidale, in grado di assumere maggior peso in uno scenario in cui, di fronte a problemi globali e interconnessi, le risposte adeguate non possono non essere a loro volta globali e interconnesse.



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