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Anna Bernardini, direttore della collezione, guida i visitatori in un tour attraverso le bellezze della storica dimora di Biumo, gioiello del Fai, e del suo grande parco. Il tutto, comodamente dal divano di casa

Giuseppe Panza ha anticipato i tempi nel gusto per un’arte che pochi conoscevano: l’arte americana minimalista. Ha collezionato opere dagli anni ‘40 agli anni ’60 e oltre. Scovava gli artisti nei loro luoghi di lavoro, attraversando l’America da un oceano all’altro. Aveva intuito l’armoniosa coerenza delle loro installazioni negli spazi di Villa Menafoglio Litta, a suo tempo acquistata dal padre. Ai Sims, Simpson, Flavin, i primi artisti prediletti, aggiunse poi tanti nomi, sempre americani. Sole eccezioni, gli italiani Ettore Spalletti e Vittorio Tavernari. La Villa è oggi gioiello del Fai e luogo di eccellenza nel mondo. Le tante presenze alle mostre di Wenders, Viola e Wilson mandarono in tilt il traffico di Varese. La visita virtuale del museo e del grande parco è però sempre possibile. Lo è anche nel video-racconto di un affascinante percorso offerto dalle parole di Marco Magnifico. Vicepresidente esecutivo Fai e nipote di Giovanna Panza, complice delle scelte collezionistiche del marito, ha ricordi di un’infanzia vissuta spesso nella Villa di Biumo, meta di straordinari incontri. Anna Bernardini, una laurea in storia dell’arte e una vocazione al bello assimilata in famiglia (lo zio materno era Giovanni Testori), e a sua volta guida sicura di questa realtà irripetibile in veste di direttore della collezione, parte del circuito Guggenheim e della Villa.

Come è cominciata questa tua felice avventura?

Dopo 10 anni di impegno ai Musei Civici di Varese e uno in Electa Mondadori, nel 2006 Marco Magnifico, Vicepresidente esecutivo del Fai, decide di “arruolarmi” come responsabile scientifico e organizzativo della Villa. Giuseppe Panza era allora partecipe all’ideazione di mostre e attività espositive non solo nelle grandi realtà internazionali, ma anche in questa dimora. Certo la mia formazione era focalizzata sull’arte del ‘600 e il salto è stato notevole. Ma collaborare e confrontarmi con Giuseppe Panza e Giovanna, ragionare in modo approfondito sui progetti, lavorare cercando di tendere alla qualità, alla coerenza e alla relazione con il luogo, è stata per me un’esperienza e una sfida importante, anche nella definizione della mia personalità. Sarò sempre grata per la fiducia con cui mi hanno accolta e accompagnata in questo percorso.

Se Panza avesse dovuto affrontare questo momento di difficoltà da Coronavirus, avrebbe puntato sui social, come avviene ora in ogni tempio dell’arte o si sarebbe inventato altro per la sua Villa?

Difficile rispondere a questa domanda. Ma non dimentichiamo che Giuseppe Panza, nato nel 1923, visse momenti drammatici durante la Seconda Guerra Mondiale e altri di crisi, come racconta con infinita tenerezza nei “Ricordi di un Collezionista” e sue memorie: a 12 anni, durante l’epidemia della scarlattina, malattia allora insidiosa, venne “isolato per 40 giorni con regole molto rigide” e questa difficoltà si tradusse in un’occasione decisiva. Si chiuse in camera e si fece portare i libri necessari per studiare la storia dell’arte e le vicende di tanti artisti e opere, ma anche discipline come la biologia, l’astronomia, la storia romana, greca e del Medioevo. Fu per lui un periodo di formazione: la nascita di una grande passione, in un approccio trasversale alla vita, che in quel momento emerse con evidenza e rimase radicale nella sua esperienza, anche di collezionista.

Avete da poco ripristinato il percorso museale del primitivo allestimento, quando Villa Panza aprì ufficialmente i cancelli al pubblico nel 2000. Perché questo ritorno?

Il 2020 doveva rappresentare un’occasione particolare per Villa Panza: il decennale della morte del collezionista e anche il ventennale dell’apertura al pubblico da parte del Fai. Un momento importante per mettere a fuoco e approfondire la ricerca di Giuseppe Panza e l’attività del Fai che ne ha raccolto l’eredità. La Villa è stata presentata assecondando le modalità con le quali Panza aveva concepito il palinsesto espositivo e i criteri museografici da lui indicati. È ritornata nella grande Scuderia anche l’installazione Desire (1981), non esposta dal 2012, di Martin Puryear, scultore afroamericano che ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 2019. A questo riallestimento integrale della collezione si sono affiancati i lavori lasciati qui dagli artisti, dal 2000 fino ad oggi. Un excursus che include una sequenza di donazioni e acquisizioni connesse a progetti espositivi site specific di protagonisti dell’arte contemporanea internazionale già intercettati dal collezionista o assimilabili ai suoi intenti di ricerca per sensibilità e visioni. Tra gli altri Christiane Loher, Wim Wenders, Meg Webster, Sean Scully, Robert Wilson, Robert Irwin.

Quanto è stata utile la video-arte per avvicinare il pubblico a un nuovo modo di fruire l’arte, non solo contemporanea?

Penso al grande albero di Viola che muta nel tempo, per ore, nella sequenza filmica di infiniti fotogrammi o alla proiezione della storia del lupo e dell’agnello di Wilson, il sangue rosso che s’allarga sulla neve, il belato dell’agnello e il lugubre ululare del lupo mentre l’occhio di chi guarda insegue l’occhio della telecamera. Abbiamo sempre cercato di coinvolgere artisti e farli riflettere sull’identità del luogo partendo dai temi e dalla genetica della collezione e della Villa. Pensiamo alla luce, ai colori, allo slow motion (ai tempi lenti della percezione), alla relazione tra interno ed esterno degli ambienti e l’interiorità ed esteriorità; ancora tra architettura e natura, tecnologia e dinamica dell’esperienza che muta. L’aspetto percettivo e il carattere immersivo (non possiamo non ricordare i grandi lavori di Flavin e Turrell o di Irwin e Maria Nordman che costellano Villa Panza) sono elementi fondanti delle origini di Villa Panza e, per molti aspetti, vicini alle esperienze di Viola e Wilson, citate precedentemente. Grazie alla voce e alla poesia di questi maestri sono stati sperimentati dialoghi profondi, a volte inaspettati, non senza suggestivi cortocircuiti con la collezione permanente e gli ambienti interni; allo scopo di porre domande e interrogativi in linea con la funzione dell’arte contemporanea e quanto per primo Giuseppe Panza ha voluto indicarci con la sua appassionante avventura.

Guardare all’arte significa anche per voi utilizzare la tecnologia, che, in questo difficile momento, aiuta a spalancare i musei del mondo?

Il Fai in queste settimane narra, accompagna e desidera star vicino (attraverso la Newsletter, con Facebook e Instagram) ai suoi sostenitori e a chi ama ascoltare storie particolari o compiere visite speciali e tour virtuali nei luoghi, nei beni e nei giardini. Quanto a Villa Panza ci riferiamo sempre più, per la collezione permanente e per le mostre temporanee, anche a un pubblico giovane, con progetti didattici e percorsi per studenti di ogni grado, dalla scuola dell’infanzia e primaria fino all’Università, con la quale collaboriamo da tempo. La tecnologia è, anche per questo aspetto, fondamentale.

Il ricordo più profondo lasciato a te da Giuseppe Panza?

I ricordi sono tanti. Ci sono aspetti della sua personalità che hanno segnato la mia sensibilità e la memoria. E ancora mi accompagnano. Assoluta è stata in lui la profondità della ricerca e del giudizio. Come lo erano coerenza e chiarezza, era una persona rispettosa di sé e degli altri. Nella sua testa non esistevano compromessi: il senso della qualità ha prevalso nel suo lavoro, nella scelta delle opere ma anche nell’esecuzione degli allestimenti. E la cortesia vera e il fascino della sua intelligenza lo distinguevano. La sua passione e la sua vita hanno armoniosamente coinciso, erano un tutt’uno.

 



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