“Un Governo lo si giudica sul lungo periodo”
Da una parte ci sono i numeri. Con le assunzioni a tempo indeterminato che in Italia sono ammontate nei primi nove mesi del 2015 a 1,7 milioni (comprese le trasformazioni dei contratti a termine) e co
Da una parte ci sono i numeri. Con le assunzioni a tempo indeterminato che in Italia sono ammontate nei primi nove mesi del 2015 a 1,7 milioni (comprese le trasformazioni dei contratti a termine) e con un saldo positivo rispetto alle uscite (che sono state 1,23 milioni) pari a più di 469mila nuovi rapporti di lavoro. E con l’andamento della produzione industriale stimato in aumento dello 0,7% nel terzo trimestre dal Centro Studi Confindustria, dopo il già positivo +0,4% del secondo trimestre. Ed un Pil che a fine anno dovrebbe superare l’ormai fatidico “più zero virgola” e attestarsi su una crescita secca dell’1% rispetto al 2014.
L’azione riformatrice sul mercato del lavoro. L’analisi degli ultimi dati che indicano un miglioramento congiunturale. La via verso una maggiore produttività. Intervista al professor Rodolfo Helg della LIUC – Università Cattaneo, per ragionare di economia “in modo più scientifico”, ignorando almeno per un momento il dibattito politico sempre influenzato dalla ricerca del consenso immediato
Dall’altra ci sono i commenti. Come quelli del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi: “Mentre l’Europa si sta fermando, l’Italia è ripartita”. A cui fa da contraltare l’opinione dell’esponente di Forza Italia, Renato Brunetta: “Il Jobs Act non ha creato nessun posto di lavoro”. Due versioni opposte in cui si inserisce quella più moderata del Direttore Generale di Confindustria, Marcella Panucci: “Siamo di fronte ad una lenta risalita, non ancora ad una accelerazione”.
È sempre così. Non solo in Italia, intendiamoci: all’oggettività dei dati nero su bianco si affianca la soggettività della loro lettura. Come se accenti, punteggiatura e dizione fossero un mero esercizio personale, interpretabili a piacere.
Ma è possibile provare a distaccarsi dal dibattito politico e sociale delle dichiarazioni giorno per giorno e osservare da un’angolatura diversa, più scientifica, ciò che sta avvenendo nella nostra economia, senza arrivare a una conclusione ad ogni costo? Un esercizio di analisi, senza indicare meriti o demeriti di questo o quel governo, senza pesare sulla bilancia dei pro e dei contro un singolo provvedimento, senza per forza proporre, prima di vedere gli effetti concreti di una nuova legge o riforma, ciò che si sarebbe potuto altrimenti approvare.
“In teoria sì, è possibile. Occorre però cambiare prospettiva. Bisogna soprattutto comprendere che alcuni giudizi si possono dare solo nel lungo periodo. La ricerca del consenso, soprattutto politico, non è sempre sinonimo di analisi corrette”. A parlare è il professor Rodolfo Helg, Direttore della Scuola di Economia e Management della LIUC – Università Cattaneo. Che subito ci tiene a precisare un concetto che suona molto poco scientifico, ma che dà subito il senso di come tutto il mondo è paese nell’interpretazione dei dati economici: “Basti pensare all’esempio recente di un Paese straniero che non cito per non ripiombare nelle polemiche seguite alla presentazione di una ricerca che, dati alla mano, dimostrava come l’aumento dei lavoratori stranieri non avesse inciso sull’aumento della disoccupazione in quell’economia. Disoccupazione che in realtà, nello stesso periodo era, infatti, diminuita. Conclusioni scientifiche che andavano contro le teorie di una grande parte delle forze politiche che non hanno mai cercato di contrastare sul piano dei contenuti la ricerca, di cui è stata contestata la fondatezza puntando sul fatto che alcuni degli autori erano per l’appunto stranieri”.
Da una parte la politica. Dall’altra la scienza, economica. In mezzo un’opinione pubblica disorientata sballottata e senza punti di riferimento, se non quelli dei propri giudizi. A volte influenzati da pre-giudizi culturali, sociali, economici. Dinamiche ovvie, si dirà. Sempre le stesse. Da cui, però, è bene provare ad estraniarsi ogni tanto. Almeno per poche righe. Il tempo di qualche ragionamento che facciamo col professor Helg. Il cui rigore scientifico di uomo che cerca di capire, più che di giudicare, è costellato di un’onestà intellettuale garantita da “secondo me”, dall’uso spasmodico del condizionale, da espressioni che allargano la visione al “parere di alcuni colleghi più esperti di questa specifica materia”. Il messaggio è chiaro: proviamo a fare ordine. Ma che nel mettere a posto dobbiamo ricordarci che qualcosa potrebbe sempre sfuggire e che, appunto, solo nel lungo periodo potremo verificare se ciò che oggi ipotizziamo si trasformerà in realtà provata. E ben sapendo che anche la ricerca economica è divisa in scuole e correnti di pensiero.
Da qui i “se”, i “ma”, i “probabilmente” che sono molto più rigorosi di alcune certezze, in quanto tali difficilmente inquadrabili come oggettive.
Partiamo dai positivi dati occupazionali come effetto del Jobs Act e degli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato. Bastano queste misure per far riprendere stabilmente l’occupazione?
Ovviamente no, questo è chiaro a chiunque. Gli incentivi possono certo essere utili per agganciare la ripresa, quando questa si concretizza. Ma a muovere l’economia non sono questi provvedimenti. A determinarne le dinamiche sono sempre i consumatori e le imprese. L’Italia è entrata in questa crisi già malata, con il risultato di aver dovuto fare i conti con picchi più pesanti di quelli subiti durante la Grande Depressione del ’29. Abbiamo perso un quarto della nostra produzione industriale, questo lo sappiamo, ma la realtà è che tutte le ferite le scopriremo tra due o tre anni. Di fronte a questo scenario un governo di qualsiasi colore politico può fare ben poco.
Insomma secondo lei è troppo presto per trarre un bilancio sul Jobs Act?
Sì, occorrono alcuni anni per capire come e in che misura una riforma del genere può cambiare il nostro mercato del lavoro. Di certo ci sono elementi subito individuabili come positivi. Il messaggio dato agli investitori stranieri a cui stiamo, in pratica, dicendo di voler puntare su regole più moderne. Ci sono poi i livelli fiscali e contributivi che con gli incentivi ci pongono finalmente ai livelli dei nostri competitor stranieri. C’è il passaggio dal concetto di difesa del posto di lavoro, a quello della tutela della persona e della sua occupabilità. Infine c’è una maggiore trasversalità dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali che riguardano ora una più vasta platea di lavoratori. Sia di grandi, sia di piccole imprese.
“Il miglioramento dello scenario economico a cui stiamo assistendo non dipende dalle giuste riforme del Governo, quanto piuttosto da elementi esterni”
Ciò detto ci sembra, però, di capire che secondo lei la ripresa o, comunque, i miglioramenti congiunturali a cui stiamo assistendo non sono merito del Governo e della sua azione riformatrice.
Tale azione c’è e in molti aspetti va nella giusta direzione, ma direi di no, il miglioramento dello scenario economico a cui stiamo assistendo non dipende da queste riforme, quanto piuttosto da elementi esterni. E proprio perché sono tali dobbiamo stare attenti a ciò che sta avvenendo sui mercati prima di festeggiare per gli ultimi dati positivi. Le tensioni stanno aumentando e il rallentamento di Germania e Cina ci devono far stare allerta.
Ma se non è la politica a poter incidere sulle fortune o le sfortune economiche di un Paese cosa può fare un esecutivo per stimolare la crescita?
Beh, la prima cosa che deve fare è non sperperare denaro pubblico. Ma questo gli ultimi governi di centro-destra, tecnici e di centro-sinistra lo hanno ben compreso.
Tutto qui? Un po’ poco per giustificare chi sostiene che il tempo dei tecnici sia ormai finito e che bisogna ritornare alla centralità della politica.
Infatti, non è tutto qui. La politica ha davanti a sé una grande sfida. Ed è quella di dare al Paese ciò di cui più abbiamo bisogno: grandi visioni di lungo periodo.
Ci faccia un esempio. Prendiamo un problema su tutti: quello della bassa produttività italiana. Come può la politica incidere su questo nostro punto debole?
Innanzitutto dovremmo chiarire che non è vero che l’Italia soffre a tutti i livelli di bassa produttività. Dobbiamo dividere le imprese in due categorie. Quelle che esportano e quelle orientate al solo mercato interno. Le prime hanno tassi di produttività in linea con i competitor europei e mondiali con cui si confrontano ogni giorno sui mercati. Se così non fosse non potremmo avere i brillanti risultati in termini di export che possiamo vantare. Il problema sta piuttosto in quelle aziende che devono fare i conti con la sola concorrenza interna. È qui che ci sono i gap più forti su cui intervenire. Ci vogliono investimenti per aumentare la capacità tecnologica delle imprese e del parco macchine. Occorrono, qui sì, incentivi a tali investimenti. Come il super-ammortamento che vuole introdurre il Governo e che vede l’Italia arrivare sempre dopo gli altri. Altra componente fondamentale per puntare su una maggiore produttività è poi la scolarizzazione delle risorse umane, dobbiamo fare leva sulla formazione del capitale umano inserendo le imprese nei percorsi didattici. Anche con l’obiettivo di aumentare la managerialità nelle Pmi. Ma c’è un ruolo che più di altri spetta al Governo.
Quale?
Quello di garantire la concorrenza. O, se vogliamo, salvare il capitalismo dai capitalisti, come già affermato da Luigi Zingales. Il capitalista, che basa la sua esistenza sulla sfida di vincere sulla concorrenza, ha al suo interno un meccanismo di autodistruzione: quello di tendere al monopolio attraverso la naturale tendenza ad avere la meglio sui propri competitor. Il Governo, in questo, deve essere in grado di fare da freno, di spezzare questi automatismi di autodistruzione e creare delle barriere. Qui il governo può rivestire un ruolo importante e deve saper fare di più.
Qualcosa si sta facendo sul piano delle privatizzazioni.
Privatizzare non basta. Limitarsi alle privatizzazioni ha la sola conseguenza di trasformare un monopolio pubblico in un monopolio privato. Agli effetti poco cambia per il consumatore. Bisogna piuttosto saper imporre una reale concorrenza.