Sul Made in non ci arrenderemo mai
Ancora una volta è stallo. Non c’è niente da fare: il “Made in” non riesce a passare in Europa. I Paesi del Nord non vogliono sentir parlare di etichettatura dei prodot
Ancora una volta è stallo. Non c’è niente da fare: il “Made in” non riesce a passare in Europa. I Paesi del Nord non vogliono sentir parlare di etichettatura dei prodotti non alimentari. L’ultima occasione a Bruxelles per tentare di sbloccare la trattativa è stata quella che ha riunito i ministri europei che compongono il Consiglio Competitività della Ue. E si è conclusa con un nulla di fatto. Unico risultato è stato quello di sancire l’ormai insanabile spaccatura tra i due fronti contrapposti. Da una parte i Paesi a favore dell’introduzione nella Ue di un’etichetta con la tracciabilità dell’origine dei prodotti: Italia in testa, seguita da Croazia, Francia, Grecia, Portogallo Spagna, con il recente passaggio in questo schieramento della Polonia. Paesi che vogliono il “Made in” almeno per cinque settori: ceramica, calzature, gioielleria, tessile, legno-arredo. Dall’altra lo schieramento del no capitanato da Germania, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Irlanda, Olanda, Svezia. Nemmeno l’ultima mediazione lettone che puntava su un’etichettatura limitata a calzature e ceramica è andata in porto.
E ora cosa accadrà? A fare il punto con Varesefocus su un confronto partito ormai nel 2003 è Lisa Ferrarini, Vice Presidente di Confindustria per l’Europa.
Vice Presidente Ferrarini, dopo l’ennesimo nulla di fatto al Consiglio competitività di fine maggio quante speranze ci sono di arrivare all’ottenimento del “Made in”? È una partita da considerare ormai persa?
Intervista alla Vice Presidente di Confindustria per l’Europa, Lisa Ferrarini, per fare il punto sulla battaglia per l’adozione di un’etichettatura di origine per i prodotti dei settori manifatturieri della ceramica, delle calzature, della gioielleria, del tessile e del legno-arredo
Confindustria è più determinata che mai in questa battaglia. La discussione del 28 maggio non ha consentito l’approvazione del compromesso lettone, che era comunque inaccettabile, ma ha fornito elementi su cui lavorare. Il Governo italiano, rappresentato in quella occasione dal Vice Ministro Calenda, ha enunciato con fermezza la propria posizione, consolidando l’unitarietà degli altri dieci Stati membri favorevoli. In secondo luogo è emerso chiaramente che, secondo uno studio d’impatto, cinque settori industriali sono a favore del Made in e di ciò bisognerà tenere conto. Infine, un grande paese manifatturiero come la Polonia ha cambiato posizione schierandosi tra quelli favorevoli ad un compromesso. Perciò la linea del Governo è chiara, vi è oggi un terreno di gioco definito a livello settoriale e la contabilità del consenso è aumentata a nostro favore. La politica europea è sempre stata quella dei piccoli passi.
Come Confindustria continuerà a portare avanti la battaglia per il “Made in” nei prossimi mesi? Quali le azioni di sensibilizzazione nei confronti degli industriali tedeschi?
L’indomani del Consiglio di maggio eravamo già attivi nel nuovo scenario. Abbiamo calcolato che nei cinque settori alla base della proposta italiana i dodici paesi favorevoli detengono una quota di produzione di oltre il 65% del totale europeo, pertanto lo studio d’impatto ha fornito un indicatore oggettivo dell’interesse economico europeo. La strada è sempre in salita e la Germania è l’ostacolo principale, tuttavia anche su questo fronte qualcosa si sta muovendo. Con la Confindustria tedesca ci sarà un dialogo franco e approfondito per il quale non è possibile alcun pronostico, ma dopo anni di dura contrapposizione, vi è la volontà di discutere in maniera costruttiva e, se ve ne saranno le condizioni, di identificare un possibile compromesso.
Come giudica l’operato del Governo italiano in sede europea sul dossier del “Made In”? Poteva essere fatto di più durante il semestre di presidenza italiano di luglio-dicembre 2014?
Il semestre italiano è stato “corto”, come tutti quelli a cavallo dell’estate, e condizionato dai rinnovi delle istituzioni comunitarie, perciò intrinsecamente complesso da gestire. Per avere qualche chance di passare, una proposta di compromesso andava concordata, informalmente, soprattutto con la Germania, ben prima del suo inizio, per tessere le necessarie alleanze e definire eventuali trade-off, come fa ogni presidenza quando prepara il terreno alle proprie priorità. Le condizioni più favorevoli si erano presentate alla metà di aprile 2014, quando il Parlamento europeo aveva votato in prima lettura, con ampia maggioranza in seduta plenaria, la proposta di regolamento in cui è contenuto l’art.7 sul Made in obbligatorio. Purtroppo, se ne è discusso, il 6 dicembre, all’ultimo Consiglio utile ed il dossier è slittato alla Presidenza successiva. Non spetta a Confindustria dare indicazioni al Governo su come muoversi, semmai definire insieme la strategia, ed è ciò che sta accadendo. La linea assunta il 28 maggio è stata pienamente condivisa e l’azione sui governi e sull’industria da mesi si svolge all’unisono.
“Confindustria è più determinata che mai in questa battaglia. Con gli industriali tedeschi ci sarà un dialogo franco e approfondito per il quale non è possibile alcun pronostico”
Ipotizziamo che domani il regolamento sul “Made in” venga adottato: può spiegare al cittadino comune quali sarebbero i vantaggi per l’economia italiana ed europea?
Anzitutto aumenterebbero l’informazione e la trasparenza nei confronti del consumatore europeo, che conoscerebbe l’origine di ciò che acquista traendone le conclusioni, anche di carattere sociale o ambientale, che la sua sensibilità gli suggerisce. Le imprese godrebbero di un regime di reciprocità a livello internazionale, dato che il Made in è obbligatorio in quasi tutti i grandi mercati mondiali tranne che in Europa. Si contribuirebbe alla lotta alla contraffazione sanzionando più seriamente le false indicazioni di origine. Ne trarrebbe sicuramente beneficio il Made in Italy. Alcuni settori industriali, come le calzature, stimano che questo produrrebbe un incremento del 10% dell’occupazione e di oltre il 20% dei livelli produttivi. Si favorirebbe il rientro di parte degli investimenti produttivi in Italia, poiché il Made in Italy ha un elevato valore commerciale. Infine, ma non per importanza, vincere questa battaglia aumenterebbe l’autorevolezza dell’Italia nella Ue rafforzandone l’identità manifatturiera, cosa di cui vi è grande bisogno.
Perché la Germania e i Paesi del Nord si oppongono con così tanta forza al “Made in”. È solo una contrapposizione tra Paesi produttori e Paesi importatori, o c’è di più? D’altronde la stessa Germania è una potenza industriale.
Nei paesi del Nord Europa le produzioni manifatturiere forniscono solo un limitato contributo al Pil nazionale ed il principale obiettivo è favorire gli operatori del commercio, della logistica, dei trasporti e della distribuzione, perciò vi è il timore che aumentando i controlli sul Made in si riducano i traffici. Nel caso della Germania, dove la produzione manifatturiera conta, entra in gioco il grado di internazionalizzazione produttiva, per cui molte imprese tedesche dovrebbero dichiarare il “Made in X” di prodotti che oggi sono comunemente ritenuti “Made in Germany”. Nel primo caso rileva un aspetto strutturale dell’economia, accanto ad uno ideologico di marcata tradizione libero-scambista, nel secondo, l’opposizione al Made in obbligatorio appare legata, più pragmaticamente, alle esigenze di alcuni settori-chiave dell’industria nazionale, come ad esempio la meccanica o l’elettronica, che però non sarebbero oggetto del compromesso sostenuto dall’Italia.