Meglio rinoceronte che pecora digitale

LinkedIn ha preso la decisione di utilizzare i dati degli utenti per allenare l’Intelligenza Artificiale. Da qui una riflessione sulla privacy

Nel 2014 (che, a scriverlo ora, sembra in termini di innovazione digitale un secolo fa) l’esperto di social network Rudy Bandiera scriveva nel suo libro “Rischi e opportunità del Web 3.0”: “La consapevolezza di quello che si usa e di come lo si usa è il primo passo verso un mondo migliore e più a misura d’uomo”. In un contesto che cambia con una velocità tale che pochi riescono a tenere il passo, molti ci provano e la maggioranza non tenta nemmeno, il tema della consapevolezza è quanto mai attuale e universale. Fuori dalle cantine degli inventori, dalle camerette dei nerd e dai consessi accademici, la questione riguarda tutti.

Ne è un esempio la decisione di LinkedIn che userà dati degli utenti per allenare l’Intelligenza Artificiale. “Si può negare il consenso”, sottolineano i ben informati e, aggiungeremmo noi, tutto sommato, se questa intelligenza vogliamo usarla bene, meglio allenarla, no? Ma non è questo il punto. La questione è sottile e LinkedIn non è l’unico sistema ad affrontarla in questo modo. In pratica, non si chiede il permesso di usare i dati personali con tanto di consenso esplicito (e informato), ma si “sollecita” un’azione attiva di rifiuto, con un meccanismo che tecnicamente si definisce opt-out. Se ci state leggendo dopo una giornata stressante, con nessuna voglia di perdere tempo a smanettare tra le opzioni di qualunque sistema o, peggio, se non ci state leggendo perchè il tema vi interessa meno del rischio estinzione del rinoceronte di Giava, questo riguarda prioritariamente voi. Sì perchè, surfando sulla normativa GDPR, ma sbattendo evidentemente contro gli scogli del buon senso, un’azione simile mette in evidenza una debolezza.

Non nell’uso finale del dato che potrebbe anche trovarci d’accordo, ma nel metodo stesso della sua acquisizione che, con la scusa del legittimo interesse, punta sulla mancata consapevolezza dell’utente. Matteo Flora, esperto di comunicazione e sicuramente paladino della correttezza digitale, sottolinea sul suo canale YouTube il rischio dell’inerzia di un utente che non agisce per il bias dello status quo: “Il silenzio dell’utente diventa asset economico. Avremo sempre più due velocità, con una minoranza che si protegge contro una maggioranza di pecore digitali”. Come comportarsi dunque? Una risposta giusta non esiste. L’importante è farsi la domanda.

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