Il nuovo mondo senza globalizzazione
Intervista a Fabrizio Maronta della rivista Limes sullo scenario internazionale, a 100 giorni dall’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump
‘‘Un mondo senza la Nato, con gli Stati Uniti che escono completamente dall’Europa e non si curano più minimamente dei destini della sicurezza del Vecchio Continente io personalmente fatico a vederlo. Quello che invece è facilmente intuibile è che stiamo andando verso uno scenario in cui gli Usa chiederanno ai Paesi europei di fare molto di più soprattutto per la gestione delle crisi che gli americani non considerano rilevanti per loro. Una nuova crisi nei Balcani, ad esempio, o in Nord Africa”. Tanto per essere chiari: “Se oggi inglesi e francesi volessero stanare un altro dittatore in Africa settentrionale, questa volta lo dovrebbero fare da soli”. È la geopolitica con i suoi impatti sul sistema produttivo, a 100 giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il tema che ha fatto da filo conduttore di un recente incontro tra le imprese associate a Confindustria Varese e Fabrizio Maronta, Responsabile Redazione e Relazioni Internazionali della rivista Limes. Primo appuntamento di un ciclo di “breakfast brief”, voluti dall’Associazione degli industriali varesini e dal suo Gruppo Giovani Imprenditori per offrire, alle aziende di un territorio fortemente vocato all’internazionalizzazione, chiavi di lettura di uno scenario globale sempre più dominato da stravolgimenti politici, tecnologici, di mercato e di riorganizzazione delle filiere produttive.
Un quadro su cui pende la minaccia dei dazi fortemente voluti dal Presidente Trump. Su questo Maronta non ha dubbi: “Già semplicemente l’annuncio ha un suo effetto. Le imprese hanno bisogno di programmazione e sentire che gli Usa potrebbero mettere dei dazi ha già conseguenze sulle strategie e sul riposizionamento delle filiere. Trump gioca anche su questo, al di là del fatto che poi alle parole seguano i fatti. Ma non è l’unico trend a cui stare attenti”.
Su quale altro aspetto internazionale dovrebbero concentrarsi le imprese?
Per esempio, l’annuncio della Cina di Xi Jinping che vuole mettere in campo un grosso piano di consumi interni per dipendere meno dalle proprie esportazioni. Anche in questo caso parliamo di un intento dichiarato, tutto da verificare nei modi e nei tempi, ma che sta già mettendo in moto riaggiustamenti molto forti con trend che possiamo discernere dai dazi.
Che, però, rimangono il fattore di allarme numero uno per il made in Italy. Ha ragione chi pensa che Trump non andrà fino in fondo perché non può permettersi una crescita dell’inflazione nel suo Paese?
L’inflazione negli Usa c’era anche prima di Trump. Gli americani ci convivono da almeno un anno. Un’inflazione che, tra l’altro, risente ancora delle conseguenze del Covid. Da questo punto di vista le politiche della nuova Amministrazione non stanno spostando granché, per il momento. Il punto fondamentale è che Trump è disposto a far scontare ai suoi concittadini qualche sacrificio adesso per stare meglio dopo. È questo il patto. Che i dazi siano inflazionistici lo sanno anche i muri e anche Trump ne è pienamente cosciente. E lo sa anche chi lo vota. Lo sanno e lo hanno rivotato. Anche gli stessi agricoltori, i più colpiti dalla politica dei dazi del suo primo mandato, per i quali però destinò allora 60 miliardi a loro sostegno. La realtà è che Trump, per il suo consenso, ha una riserva di tolleranza con due limiti: temporale e di quantità. Gli effetti inflazionistici non devono essere uno shock e non potranno durare troppo, quel tanto che basta per arrivare ai benefici che Trump ha promesso, compensando nel frattempo i sacrifici che chiede ai suoi elettori con sostegni ponte. Quali saranno gli effetti a lungo termine è tutto un altro discorso.
Non c’è una contraddizione in questa visione?
In realtà nella politica di Trump ne esiste una ancora più grande.
Quale?
Quella per la quale gli Usa voglio liberarsi dagli effetti e dai costi della loro centralità nel contesto mondiale, che vivono sempre di più come un peso, ma non vogliono disfarsi dei benefici che da questa centralità derivano. Ciò comporta giocoforza delle contraddizioni. Basta guardare a Musk e ai suoi forti interessi in Cina. Il rischio per Trump è una politica che alieni gli amici e incattivisca ulteriormente gli avversari, con conseguenze che potrebbero andare oltre a quelli da lui previsti e messi in conto. Ma all’interno di questa incertezza ci sono delle dinamiche che si possono discernere dalle singole personalità.
Tipo il fatto che Trump con il suo atteggiamento anti-Ue possa diventare, in realtà, il più grande federatore dell’Europa? È una battuta che si sente spesso.
Io non la direi nemmeno per scherzo, perché fuorviante. Non vedo mosse federative europee all’altezza delle aspettative. Quello che sta succedendo è che Trump sta avendo il merito storico, questo sì, di spingere i singoli Paesi europei ad un ripensamento delle proprie politiche e del proprio ruolo. Penso in particolar modo alla Germania e al suo rapporto tra economica civile ed esigenza militare. I tedeschi stanno almeno apparentemente abbandonando il dogma del pareggio di bilancio e l’idea che per la propria difesa occorra dipendere completamente dagli Stati Uniti. Al di là di questo, però, mi pare che non ci sia nei fatti una forte spinta federativa europea. Se ci fosse, infatti, commenteremmo due novità specifiche: un debito pubblico europeo comune, senza il quale non puoi fare una politica industriale comunitaria; un esercito europeo per il quale, però, non puoi avere 27 dita su 27 bottoni, ma un bottone e un dito solo. Tutto questo, tuttavia, non è lontanamente all’ordine del giorno della Ue.
Stiamo dunque perdendo un’occasione?
Di più, passato lo shock assisteremo a una rinnovata competizione all’interno dell’Europa da un punto di vista anche industriale, con il tentativo di ognuno di affermare i propri campioni nazionali su mercati come quello delle armi, delle batterie, della cantieristica navale. Tutti settori strategici in cui difficilmente sorgerà un player europeo, al massimo si giocherà a livello di consorzi in stile Airbus. Una cartina di tornasole l’abbiamo avuta per esempio con la Francia, potenza nucleare che di fronte alle difficoltà di sicurezza dettate dalla nuova politica degli Stati Uniti, per cercare un’autonomia strategica, si è rivolta all’altra potenza nucleare europea, la Gran Bretagna. Il messaggio è chiaro: si fa quello che si può con chi ci sta. Non siamo al momento federativo, siamo semmai nella fase di risveglio da nozioni soporifere legate ad alcune certezze che per noi europei stanno venendo meno.
Quali ad esempio?
Per esempio, che la garanzia militare statunitense ci sarà per sempre, che l’industria non ci serve perché tanto possiamo comprare da altri i prodotti di cui abbiamo bisogno, che la transizione energetica si può fare in un giorno e mezzo, perché il gas non ci piace e il nucleare pure, che possiamo liberamente commerciare con la Cina senza pensare ad alcuna considerazione di natura strategica, che la Germania non farà mai una politica industriale a debito. Questi assunti stanno saltando ed è già una rivoluzione, la quale, però, non sta dando vita a un attore europeo sovrano su politiche industriali, fiscali e di difesa. E anche le imprese lo devono sapere. La Francia, tanto per dirne una, non smetterà mai di fare shopping tra l’industria italiana, rinunciando a mettere il veto alle acquisizioni straniere sulla propria a favore di uno spirito federativo europeo. Macron, quando parla di autonomia strategica, ha in mente la propria. La Germania, quando pensa di ricostruire l’industria, pensa alla propria e al suo ruolo di esportatrice. In tutto questo non c’è alcuna visione europea.
Domanda secca: la globalizzazione è finita?
Se per globalizzazione intendiamo un sistema di egemonia statunitense che garantisce la fluidità dei commerci internazionali e le uniformità delle regole e la disponibilità del suo mercato ad assorbire le eccedenze produttive altrui, anche a costo di un deficit commerciale; in cui le scelte di investimento e allocazione dei fattori produttivi possono essere fatte sulla base di mere considerazioni di convenienza economica dei costi, senza alcun tipo di ragionamento riguardo alla natura dei rapporti internazionali tra Paesi e delle priorità strategiche dei governi; se per globalizzazione intendiamo tutto questo, la risposta alla domanda è altrettanto secca: sì, siamo in un periodo di deglobalizzazione.
Quali sono i principali trend internazionali a cui imprese fortemente vocate all’export come quelle varesine (più del 40% del valore aggiunto prodotto destinato ai mercati esteri) devono prendere in considerazione?
Dal punto di vista prettamente commerciale sicuramente un aumento degli ostacoli nelle vendite sul mercato Usa che cercherà di recuperare quote di manifattura, ma, allo stesso tempo, un maggior sbilanciamento della Cina sui consumi interni che offrirà opportunità, non di delocalizzare attività produttive, bensì di export. Fermo restando, però, che sul fronte cinese, si gioca anche una partita politica prettamente diplomatica.
A livello di supply chain?
In generale ci sarà la tendenza entro certi limiti di regionalizzare alcune filiere produttive. Quello che abbiamo visto, in parte, nei flussi energetici accadrà anche per altre materie prime critiche, come l’elettronica o le terre rare che servono per le leghe di acciaio.
A livello più europeo?
Una maggiore domanda aggregata in Germania che per le imprese italiane a diretto servizio della manifattura tedesca rappresenterà una spinta agli ordinativi. Bisogna, però, tenere conto che il mercato dell’industria dell’auto tedesca è contendibile e su di esso hanno già messo gli occhi i cinesi. Magari il ripensamento europeo sulla transizione energetica può allungare la vita dei motori termici: tra 10 e 15 anni arriveremo, dunque, a un parco auto non completamente elettrico, bensì fatto metà da macchine elettriche e metà ancora a combustione. Però rimane il fatto che il settore automotive è aperto e che i cinesi le auto le fanno e sempre meglio, controllando le filiere che servono a questo scopo, come sulle batterie.
Non solo dazi e Trump, dunque.
No, anche perché rimane sul tavolo lo sforzo che faranno gli Stati Uniti per indebolire strutturalmente il dollaro. Il che vuol dire che l’export Usa verso l’Europa potrebbe diventare nettamente competitivo e questo al netto dei dazi. E i settori più esposti alla concorrenza statunitense devono tenerlo presente.
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