La miscela di Rhea Vendors Group

Dalla visione di Carlo Majer alle sfide globali: lo storia dell’impresa di Caronno Pertusella mostra come una macchina del caffè possa diventare sinonimo di estetica, identità e ospitalità

Una “extended family”. Così Carlo Majer amava definire la squadra di Rhea Vendors Group. Quello stesso Majer che aveva guidato il Teatro Regio di Torino e il San Carlo di Napoli e che dal 2001 si era dedicato all’azienda di famiglia. Non è un caso, infatti, che della famiglia estesa dell’impresa di Caronno Pertusella abbia fatto parte anche un artista: in quel progetto che dell’italianità fa il suo punto di forza, da ben 65 anni, rientrano a buon diritto tanti prestigiosi aromi. Come in un buon caffè. La storia di Rhea comincia nel 1960, grazie all’idea del fondatore Aldo Doglioni Majer che, come tante imprese di quegli anni divenute poi simbolo del made in Italy, affonda le radici in un’intuizione molto semplice: unire competenze meccaniche e intuizioni creative. Majer cerca ispirazione alla fi ne degli anni ‘50 negli Stati Uniti, dove in quel periodo si sviluppava (in maniera impensabile per gli italiani) il business dei distributori automatici. La storia di quella che oggi è un’impresa di riferimento nel mondo, curiosamente nasce grazie alle suggestioni ricevute da oggetti semplici, che però esercitano un certo fascino. Basti pensare che il primo prodotto realizzato dall’imprenditore sia stato l’iconico distributore di palline colorate di chewing gum che molti di noi per tutta l’infanzia hanno sognato di possedere. Quindi, la curiosità, la ricerca del “mondo che verrà” è il primo seme dell’impresa. In seguito, cosa ha spinto il motore di Rhea? A spiegarlo è l’attuale Ceo, Andrea Pozzolini. “Dal primo passo di Aldo Majer al progetto industriale che oggi porta il nome di Rhea in 140 Paesi del mondo, il cammino non è stato breve, ma è stato lineare. L’azienda ha iniziato producendo distributori automatici di bevande, per poi concentrarsi sul caffè. L’idea, chiara fin da subito, è stata quella di valorizzare sempre il bello, l’estetica, il design”.

Un po’ la storia del made in Italy.

La nostra è piuttosto la storia di “how we made in Italy”. Ci piace pensare che dal design passi il racconto dell’italianità, di un prodotto di qualità eccellente. Questo vale in generale, ma poi si trasforma nel racconto di singole storie, quelle dei clienti, grazie ad un altissimo livello di personalizzazione. L’espressione tailor made, oggi forse un po’ inflazionata, descrive alla perfezione l’idea. I nostri sono clienti di lunga data, perché si riconoscono nel progetto e lo sposano. Del resto, le nostre creazioni raccontano un’identità.

Sembra un pensiero più artistico che industriale.

Una volta Carlo Majer disse: “Realizzare una macchina del caffè può essere paragonabile alla costruzione di un buon pianoforte, deve soddisfare le esigenze dell’artista, permettendogli di eseguire quelle sfumature interpretative che caratterizzano l’identità del musicista”. Noi costruiamo macchine per chi deve usarle. Del resto, innovare non è solo tecnica. Produciamo un concetto di italianità e di ospitalità. Di sensazione.

Cosa intende per sensazione?

Un insieme di fattori, oggi sempre più importanti. Un prodotto non assolve (solo) a una funzione, ma consente di vivere un’esperienza. Provoca una reazione. Chi lo scopre deve rispondere alla domanda “Mi piace o non mi piace?” Nel nostro caso ancor di più. In fondo, anche il miglior caffè è quello che piace. Il design è centrale in questo. Per lo stesso motivo, ci avvaliamo di contributi esterni, perché riteniamo sia fondamentale condividere idee. Così è stato per la nascita di Coffee Landscape, pensato per reinventare l’interazione sociale legata al caffè. Questo ci viene riconosciuto dal mercato e non solo. Sono svariati i premi ricevuti. Ne cito uno su tutti: Monolite, la macchina disegnata da Livermore e Ghizzoni che ha ottenuto il Good Design Award 2022.

Lei dice “il miglior caffè è quello che piace”. Visto che esportate per oltre il 90%, conoscerete bene i gusti di tutto il mondo.

Portiamo fuori dallo stivale la cultura del caffè tipicamente italiana, che è prima di tutto socialità e relazione, ma per farlo dobbiamo conoscere bene il mondo. I palati, i costumi e le abitudini sono molto diversi. Ad esempio, nella patria del caffè, il Brasile, non lo bevono come lo intendiamo noi. Per esportare cultura bisogna avere cultura.

Visto che parla di cultura, impossibile non citare un tema che oggi è al centro della cultura d’impresa: la sostenibilità. Per voi cosa significa?

Prima di tutto significa persone, famiglia e territorio. Non è fatta di sole attività, seppure ci siano anche quelle, come per esempio il nostro sostegno alla squadra femminile giovanile AB Softball Caronno. Ma si tratta di un concetto più visionario, che da una parte si basa sulla responsabilità di essere una “goccia nell’oceano”, dall’altra ci spinge ad ambire di essere sempre meglio. Questo si concretizza anche in una ricerca tecnologica, che dà vita a molteplici progetti. Dal risparmio energetico a quello delle materie prime, ai brevetti industriali. Come il nostro sistema di riscaldamento a induzione che regola la temperatura dell’acqua in base alla ricetta o il progetto Barista on Demand automatizzato che offre al consumatore un servizio ancora più personalizzato. Un progetto che risponde anche ad un altro input: accendere la curiosità. Parola che fa parte del nostro dna e torna sempre.

Visto che siamo tornati alla curiosità del fondatore Majer, lei come lo vede “il mondo che verrà”?

Semplice: vorrei che si continuasse a parlare di Rhea come un posto dove è bello andare a lavorare.

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