L’importanza di restare Perplexity

Dal mondo accademico arriva una lezione su come accogliere o meno l’innovazione non sia più una domanda lecita

In una scala da 1 a 10, con quanta fiducia salireste su un’auto a guida completamente autonoma? E con quanta fiducia vi fareste operare da un braccio robotico governato da un software? E, ancora, con quanta fiducia seguireste il consiglio su un problema di cuore offerto da un sistema di chat?

Il sociologo della comunicazione Everett Rogers divideva le persone in categorie in base alla loro propensione, e velocità, nell’adottare o meno una innovazione, unita a quella di saper cogliere dei rischi. Di fronte a queste domande, siamo convinti che alle categorie di Rogers corrisponderebbero altrettante risposte. E qui, verrebbe da pensare, grande spazio alla libertà personale. Il problema, però, è che queste domande sono vecchie, con buona pace della curva dell’innovazione. Nel 1984 poteva far sorridere che la segreteria telefonica di Sarah Connor in Terminator dicesse “Anche i registratori hanno bisogno d’amore”. Nel 2004, anno di nascita di Facebook e della morte di Rogers, decidere di non aprire un profilo social poteva sembrare sensato. Oggi tutto questo è superato.

Se siete tra quelli che salutano e ringraziano sistemi di AI come ChatGPT o Perplexity, avrete capito dove vogliamo andare a parare. Il punto è che decidere se accogliere o meno nella nostra vita, e nella nostra professione, l’Intelligenza Artificiale è un malinteso perchè questa già permea ogni ambito delle nostre esistenze. E chi crede di no, si chieda se per cercare una strada, si serva di una mappa di carta o del navigatore e se per ascoltare una canzone non si rivolga ad una certa Alexa. Gli innovatori di Rogers oggi non si chiedono più come accogliere una innovazione, anche in considerazione del fatto che ogni giorno se ne presenta sul mercato una nuova, ma come comprenderla per usarla bene. Di recente, l’Università di Torino ha optato per una politica lungimirante sull’uso dell’Intelligenza Artificiale come supporto a docenti e studenti, con delle linee guida che sconsigliano di vietarne l’uso, ma esortano ad usarla al meglio, offrendo gli strumenti a pagamento alla comunità accademica. L’esempio è questo. La domanda oggi non è se accogliere una innovazione, ma piuttosto con quanta consapevolezza e capacità di testarla, per usarla bene. E tornando alle domande, forse l’atteggiamento giusto non è tanto quello di dare risposte, ma di continuare a farsene.

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