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Quando si tratta il tema della cultura per cercare di capirne il valore economico e le potenziali capacità di traino del benessere di un territorio o di un Paese, è fin troppo semplice cedere all’irresistibile tentazione di citare la famosa frase dell’allora Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, quando, lapidario, affermò: “Con la cultura non si mangia”.

Un giudizio ancora oggi, probabilmente condiviso da molti, ma che non sembra poter essere preso alla lettera. A provare a dare una misura di quanto la cultura valga per il Pil dell’Italia è una ricerca che ogni anno viene redatta da Fondazione Symbola. È da qui che il numero di gennaio di Varesefocus cartaceo è voluto partire: dal Rapporto 2017 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”. Un primo spunto di analisi che ha dato il pretesto alla nostra redazione di svolgere, nelle pagine del “Focus”, un’inchiesta sul valore che ha oggi la cultura a livello di produzione di valore aggiunto, di indotto, di creazione di imprese e posti di lavoro. Sia sul piano nazionale, sia locale.

"Anche l'impresa può essere essa stessa cultura attraverso la realtà dei musei aziendali"

Come nostro uso, abbiamo fatto questo viaggio, non solo attraverso numeri e statistiche, ma anche con le storie esemplari e i progetti e le ambizioni che stanno nascendo sul territorio. Siamo andati a curiosare nel dietro le quinte del Premio Chiara, abbiamo cercato di capire le necessità che una città come Busto Arsizio ha per il rilancio del proprio patrimonio artistico. Andando poi avanti con la lettura, oltre al “Focus”, nelle pagine di “Arte” diamo conto dei record di biglietti strappati nel 2017 da Villa Panza e di una nuova rassegna di prestigio ospitata al Ma*Ga di Gallarate che dà spazio ad un Jack Kerouac inedito: non lo scrittore, ma l’artista. Abbiamo, inoltre, voluto raccontare come l’impresa, anche quella più industriale, possa essere essa stessa cultura, attraverso la realtà dei musei aziendali che stanno cambiando profondamente veste, trasformandosi da mere vetrine dell’evoluzione storica di una realtà produttiva, a strumento chiave dello storytelling per la valorizzazione del brand e della fidelizzazione dei clienti.

In questo è interessante proprio un passaggio della ricerca di Fondazione Symbola, quando sostiene che “le aree geografiche dove maggiore è il fatturato della cultura sono anche quelle dove è più forte la vocazione manifatturiera”. Come un connubio indissolubile. I due sistemi economici, quello industriale e quello culturale, non sono alternativi, ma anzi si alimentano e sostengono a vicenda. Lo conferma anche la ricerca “Esportare la Dolce Vita” del Centro Studi Confindustria, di cui davamo conto qualche numero fa (Varesefocus n. 5/2017), che ha analizzato il potenziale del “bello” e soprattutto del “ben fatto” italiano sui mercati e dove, nelle conclusioni, si afferma esplicitamente che “la cultura è il primo motore di successo del made in Italy nel mondo”. Perché quando uno straniero compra un nostro prodotto, includendo quindi anche un bene industriale non solo quello classico legato al fashion o all’alimentare, lo fa altresì con l’intento di arricchirsi un po’ del nostro patrimonio culturale che la sua percezione lega, almeno in parte, alle nostre imprese e alle proprie competenze.

La Lombardia rappresenta il 26% del valore culturale italiano

Non è forse dunque un caso che la Lombardia, la più importante regione industriale d’Italia, sia anche la prima per numero di case editrici (in valore 352, ossia il 40% di quelle di tutto il Paese) e per il valore che rappresenta il proprio sistema culturale: il 26% del totale italiano, contro il 16,4% del Lazio, seconda in classifica. Parliamo, in pratica, di un settore che a livello lombardo, trainato anche dai 163 luoghi del Fai e dai suoi 400 musei, dà lavoro a 345mila persone.

Come si spiegano questi numeri, poco conosciuti dai più? Con il fatto che quello nella nostra bellezza è un investimento nell’immagine che le imprese sono capaci di proiettare sui mercati. Un passaggio che è molto più diretto e impattante nella nostra quotidianità di quanto si pensi. L‘investimento culturale può assumere sia caratteri etici legati a un nuovo modo di vivere la cittadinanza, sia tentativi di respingere un degrado artistico che rischierebbe di minare l’identità e le capacità competitive del nostro stesso sistema produttivo.

Sfoglia il numero di gennaio di Varesefocus 1/2018:

 

 


 



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