L’altruismo e la generosità sono custoditi nel nostro Dna o sono atteggiamenti che impariamo col tempo? La percezione della differenza tra bene e male è frutto dell’evoluzione e dei valori a cui ispiriamo la nostra vita o è innata nell’uomo? Ecco cosa dicono gli ultimi studi e le più recenti ricerche antropologiche 

La bontà, il senso di altruismo, la generosità vengono rivalutati soprattutto in certi periodi dell’anno, come a Natale. Ma questi sentimenti sono innati nell’uomo o vengono insegnati con la crescita? Sono sempre esistiti o sono tipici di alcune società e non di altre? Cosa ne dice la scienza? Se un tempo si pensava che fossero legati all’evoluzione morale dell’umanità oggi le ipotesi prevalenti sostengono che essi siano sempre stati presenti nell’uomo e anche nelle specie vicino a noi. Anzi sembra sempre più certo che tali “valori” non siano stati “scoperti” da società avanzate tecnologicamente, ma che, al contrario, siano stati proprio questi valori innati a spingere l’uomo ad evolversi. Il desiderio di padroneggiare il fuoco fino al voler “fare scorta di cibo” per il futuro è nato non solo dalla volontà di sopravvivere, ma anche di proteggere le persone più deboli. Gli esempi di “bontà” verso persone inabili di avi lontanissimi da noi sono molteplici. 

La più recente scoperta riguarda la vita dei Neanderthal, la specie di Homo più vicina al Sapiens scomparsa, forse, proprio a causa di quest’ultimo. In una tomba scoperta a La Chapelle-aux-Saints in Francia nel 1908 vennero ritrovate delle ossa di tale specie. Recentemente il loro studio ha messo in luce che appartenevano ad un uomo anziano che non aveva denti ed era totalmente debilitato per problemi di artrite. Nonostante la grave condizione in cui si trovava sopravvisse comunque per diversi anni e questo poté avvenire solo e soltanto grazie alla sua famiglia i cui componenti si presero cura di lui fino a premasticargli il cibo. Un altro caso è quello di un Neanderthal che si ritrovò con numerose ossa fratturate e un arto amputato, ma che nonostante questo sopravvisse per diversi anni (lo si è capito dallo studio delle ossa attorno alle cicatrici) e ciò, senza dubbio, fu possibile grazie alla “bontà” di parenti e amici che si presero cura di lui.

Vari lavori, frutto dei lunghi studi dell’antropologo Donald Brown, dell’Università della California, hanno portato a sostenere che alcune disposizioni d’animo, proprio legate alla bontà, alla generosità, all’empatia, o al dovere di riconoscere i diritti delle persone che ci stanno vicino siano da sempre riconosciute dalla nostra coscienza come cose “buone”. Così come l’idea che lo stupro, l’omicidio, siano sinonimo di “male”. E questo indipendentemente dal fatto che la coscienza dei singoli si nutra o meno di ideali religiosi. Brown dice che i sentimenti positivi dell’uomo hanno portato alla sua dimensione sociale, ossia al vivere comunitario, che non è semplicemente un’organizzazione per la sopravvivenza tipica di una mandria di animali o di insetti come le formiche o le api, ma va ben oltre e vede il bene degli altri come una meta importante da raggiungere.  

Lo psicologo Steven Pinker dell’Università di Harvard sostiene che i principi morali siano pre-programmati nel nostro cervello fin dalla nascita e abbiano basi neurobiologiche

Ci sarebbe anche un’altra dimostrazione a sostegno del fatto che nell’uomo esiste una predisposizione innata al giusto, una specie di senso in più che, se “tenuto acceso”, aiuta a capire ciò che è corretto e ciò che è sbagliato e dunque spinge ad essere buoni. E non è inculcato dall’educazione perché sarebbe già presente fin dall’infanzia. Elliot Turiel, della Graduate School of Education at the University of California e Judith Smetana della University of Rochester, due psicologi, hanno dimostrato che i bambini della scuola materna sono già in grado di percepire la diversità tra “convenzioni sociali” e “principi morali”. Ad esempio, è chiaro fin da subito che non è giusto indossare il pigiama a scuola così come non è lecito picchiare un amico. Ma alla domanda: “Se il maestro lo permette faresti le due cose?” la risposta di un gran numero di bambini è stata che, sì, metterebbero il pigiama (essendo una semplice convenzione), ma no, non picchierebbero mai un compagno (vedendo in questo una legge morale).

Ma al di là delle “prove” storiche o statistiche si è anche cercato di verificare se esistano prove scientifiche in grado di dimostrare che il senso di “bontà” è scritto nel Dna delle persone. Un esperimento a favore di questa ipotesi è quello realizzato da Gregory Berns, della Emory University di Atlanta. Utilizzando una tecnologia che permette di osservare il comportamento del cervello quando sottoposto ad emozioni di vario tipo - una tecnica chiamata “imaging cerebrale” - ha messo in evidenza che allorché le persone si comportano in modo altruistico il cervello si “accende”, ossia aumenta il flusso di sangue in quelle aree che si attivano quando una persona osserva qualcosa di piacevole, come un bel paesaggio, un cibo desiderato o altri elementi gradevoli.

Steven Pinker, dell’Università di Harvard, psicologo, sostiene che di fronte a queste prove è evidente che il senso morale non derivi dalla religione che ci viene insegnata perché i principi morali che ciascuno sente di rispettare sono pre-programmati nel nostro cervello fin dalla nascita e hanno basi neurobiologiche. E la stessa idea è sostenuta da Richard Dawkins, biologo ed etologo dell’Università di Oxford, noto anche come divulgatore scientifico, il quale sostiene che alcuni principi morali sono universali, vanno al di là di ogni cultura e religione. A queste conclusioni i ricercatori sono giunti attraverso l’analisi di risposte di vari quesiti posti ad un gran numero di persone di ogni età, religione e sesso su concetti di rapporti interpersonali tra singoli e singoli. E tra singoli e comunità. Le risposte sono state estremamente simili tra loro al di là della fede religiosa, del grado di cultura, dello stato economico o di qualunque altro aspetto sociale.

Al momento tuttavia, anche se non è ancora stato scoperto il gene o i geni della bontà, sembra proprio che essa sia scritta nel patrimonio genetico e dunque è necessario, per il bene di tutti, non cancellarla e tenerla viva al di là del Natale o di altri pochi giorni durante i quali la si inneggia. 



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