Al MA*GA, un’eccezionale mostra svela le opere inedite e la vita spericolata dell’autore di “On the Road”, il massimo esponente della Beat Generation

Kerouac non fu solamente un poeta e un grande scrittore, l’autore immortale di “On the Road”, amato e tradotto anche in Italia dalla nostra, e sua, amica e traduttrice Fernanda Pivano, nonché l’esponente riconosciuto - dagli altri più che da se stesso - della Beat Generation, cioè l’amico di Allen Ginsberg e William S. Burroughs, di Ferlinghetti e di tanti altri.
É stato anche, pochi lo sanno, soprattutto un innamorato dell’arte: che amava disegnare e dipingere. Aveva coltivato sempre, fin da bambino - all’età di nove anni aveva fatto il suo primo autoritratto - il sogno di diventare un grande artista. 
Sarebbero stati l’arte, il disegno, la pittura, la musica, secondo i suoi desideri, o meglio ancora, i suoi sogni, a farne un uomo felice e, in definitiva, libero dal pensiero - troppo angosciante, per un individuo orgoglioso che in sostanza sapeva fare tutto - di dover provvedere al pane quotidiano con chissà quale noioso lavoro. “Dipingo solo delle belle cose. Uso vernici da pareti e colla, uso il pennello e le punta delle dita. In pochi minuti potrei diventare un pittore di primo piano. Se lo voglio. E quando potrò vendere i miei dipinti potrò comperarmi un pianoforte e comporre musica. Perché la vita è una noia”, scriveva a Mexico City nel 1956.

Per Jack Kerouac (1922-1969) - nato a Lowell (Massachusetts) da un emigrato franco-canadese - (vero nome Jean Louis), non andò esattamente come avrebbe desiderato. Ma si guadagnò pur sempre la pagnotta, la fama e l’interesse del mondo attraverso la scrittura. Era stato ugualmente bravo a usare la matita come un pennello, ad agganciare treni di sillabe quasi fossero accorpamenti di note o grumi di colore, a raccontare paesaggi e spazi di vita vissuta, fissandoli in quadri o grandi affreschi.
La pittura, che aveva frequentato dalla seconda metà degli anni Cinquanta anche attraverso i maestri della scuola di New York, l’aveva insomma trasfusa nelle parole, consegnata alle pagine bianche dei suoi scritti, incastonandovi colori e trasparenze, ombre e sprazzi di luce, ritratti umani e immagini di luoghi, inventati o davvero incontrati, nei lunghi viaggi alla ricerca di sé. Andava a cercare le antiche radici bretoni dei suoi avi - i de Kerouac, progenitori del padre tipografo, ai quali attribuiva una sempre inseguita patente di aristocrazia - ma anche le attuali ragioni del suo essere cittadino di un sogno americano, infinito almeno quanto lo erano le scorribande di viaggiatore assetato di incontri umani.

Se anche voi volete fare un incontro con Kerouac, andate al MA*GA di Gallarate. Cercatelo lì, se desiderate avvicinarlo per sentirne la voce che vi accompagnerà dall’inizio fino alla fine della mostra, e spiare - dentro un vecchio film in bianco e nero, Pull my Daisy , sceneggiato e diretto dallo stesso Kerouac - la sua casa: dove radunava gli amici artisti e, tra musica e discussioni sulla poesia, fumi e alcool, sfangava la disordinata giornata di uomo libero.
A raccontarlo, senza l’impossibile pretesa di esaurire la vita borderline di un grande - nel bene, e nel male che non schivò - sono un’ottantina di opere pittoriche e disegni, accanto a libri, oggetti personali e indumenti accostati con elegante casualità. E le foto del fotografo Sottsass, compagno della Pivano e, la bella intervista di lei realizzata per la Rai, nel 1966. Ci sono anche le sue scarpe da tennis e i pantaloni corti delle estati roventi, la cintura intrecciata e la borraccia ricoperta di paglia, il berretto color caki e la camicia bianca con motivi tabacco che accompagnarono il cammino “coast to coast” di Jack, la “scrittura” spontanea - come quella di “On the Road” - delle sue orme nella polvere.

L’entusiasmo incontenibile e la competenza della Presidente Sandrina Bandera, di Alessandro Castiglioni, del direttore Emma Zanella, di tutto lo staff del MA*GA, nonché l’appoggio dell’Amministrazione di Gallarate, in testa l’assessore alla cultura Isabella Peroni e il sindaco Andrea Castelli, sempre più innamorato del suo museo - realtà tanto cara a tutti i gallaratesi - hanno fatto il miracolo di portare in mostra, con un appuntamento di livello e interesse internazionale, un’ottantina di opere d’arte di Kerouac, in Italia mai viste, che lo raccontano al meglio. Con la sua vita spericolata, le coerenti amicizie, la sua cultura niente affatto abborracciata, ma nutrita da un ottimo percorso scolastico e buone letture, e da una ricerca di verità e di vita spesso disperata, fino alla fine distruttiva. 
Il tutto corredato da una scrupolosa ricerca scientifica, che porta nuova luce, raccontata in un ampio catalogo (Skira).

Vanno viste tutte le sue opere, quelle colorate e dipinte coi polpastrelli delle dita che sembrano persino riportare alla gioia di Matisse, vanno visti i suoi disegni a matita - bellissimi - che ricordano la mano sicura e il pensiero geniale, anche le ossessioni, di Picasso. 
Né passa inosservato - tra i ritratti di Joan Crawford, Truman Capote, Dody Muller - quello tanto particolare di Montini, allora cardinale. L’autore ne inquadra, in un corpo di secondaria fisicità, due particolari preziosi: gli occhi luminosi e penetranti e il copricapo coloratissimo che pare quasi un bouquet di fiori, prendendo spunto dall’istantanea di una rivista illustrata. Il personaggio lo aveva colpito, e il suo alto destino - nella sensibilità di Jack, così attenta ai destini di ogni incontro - lo scrittore e artista aveva presagito da quello scatto premonitorio, scelto come punto di partenza dell’opera.Il suo mondo, il mondo di Jack, ? raccontato qui per esteso: ci sono anche gli spartiacque della vita privata, quelli della morte del fratello Gerard di febbre reumatica, una tragedia che lui, bambino di appena quattro anni, mai si perdonò - “perché lui e non io”? - filtrata dagli umori di un  genitore etilista e di una madre, austera e bigotta, da cui mai, nonostante le tante fughe, si separerà. E che, a sua volta, gli rimarrà sempre al fianco. 

Si vedano al proposito i disegni di bambini malati, vegliati da angeli, dove Jean Louis ha rappresentato la speranza del miracolo che non avvenne. E sul quale, come dimostra una sezione della mostra, Visioni di Jack, con simbologie di angeli e crocifissi, intraprese la sua ricerca, anche grafica e pittorica, tra buddismo e cattolicesimo, tra sacro e beat (termine che lui tradusse come “beato”).
Altri spartiacque. Quelli del fallimento della vita di coppia, la negazione delle paternità attribuitegli dalle compagne (forse il timore, la paura dell’incapacità di affrontare altri possibili dolori?) e la conoscenza, fatale, di amici che lo avrebbero avviato all’uso delle peggiori tra le droghe, segnandone la fine precoce. 

Insomma tutta la vita di Kerouac è passata da qui, da queste opere, da quei tratti di matita e dalle pennellate che non lo hanno saputo salvare.
È proprio nella vita artistica di Kerouac, ha sottolineato Sandrina Bandera, che si legge il segno di “un’inesauribile tristezza”. E questo “pervadente sentimento” ben trapela, a detta della stessa curatrice, da un pensiero di “On the Road”: “Mi resi conto che quelle erano le uniche istantanee che i nostri figli avrebbero guardato un giorno (...) senza nemmeno immaginare l’aspra follia e ribellione della nostra esistenza reale, della nostra notte, l’inferno, l’insensata strada d’incubo ”. 

KEROUAC - BEAT PAINTING
3 dicembre 2017 - 22 aprile 2018
Museo MA*GA Gallarate, via E. de Magri 1
Tel. 0331 706011- info@museomaga.it
martedì venerdì 9.30/12.30-14.30/18.30, sabato e domenica 11.00/19.00



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