Sono passati poco più di 12 mesi, ma sembra un secolo da quando è stato presentato il XX Rapporto sull’Economia Globale e l’Italia del Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, intitolato “La ripresa e se toccasse a noi?” Oggi, all’indomani dell’uscita della ventunesima edizione, appare del tutto evidente come il focus in questo anno appena trascorso si sia spostato dall’Italia al mondo e dalla congiuntura economica agli scenari complessi. 

Il Piano Nazionale Industria 4.0 del Governo Italiano costituisce un tentativo, a lungo invocato, di dare al Paese una direzione di politica economica, non solo “redistributiva”, ma progettuale

Troppi avvenimenti si sono accumulati, troppi cambiamenti si sono verificati per poter ragionare “semplicemente” in termini di ripresa. Gli analisti hanno così, sin dalla copertina, voluto segnare queste discontinuità. Hanno inoltre voluto attendere l’insediamento del neo-Presidente americano, Donald Trump, per uscire con un rapporto economico che è anche stato, a ben vedere, il primo instant book macroeconomico italiano sul tema, a cui hanno dato un titolo significativo: “Globalizzazione addio?” Perché parlare di ripresa oggi è complesso, non si può solo ragionare di numeri e di congiuntura, ma bisogna sapere ragionare anche di modelli economici e di geo-politica.  La ripresa, insomma, va “storicizzata” inserendola ed interpretandola all’interno di un contesto che continua a cambiare forma ed equilibri. Siamo in un momento storico in cui molti cicli politici, ormai ventennali, vengono contemporaneamente a naturale compimento. Siamo alla fine di un anno bisestile - lo ricordano gli analisti stessi - che ha presentato una congiunzione astral-politica del tutto singolare  in cui si sommano numerosi cambiamenti. Solo il tempo ci dirà se si riveleranno negativi o positivi. Per ora essi ci appaiono sicuramente stravolgenti e scomodi. La politica internazionale è uscita dalla sua area di comfort. Vengono pesantemente rimessi in discussione i principi base (i concetti totem)che hanno accompagnato lo sviluppo di questi ultimi 20 anni: gli anni della globalizzazione. Sono almeno 5 i punti di discontinuità dello scenario geopolitico mondiale che ci appaiono sin dalla copertina: l’attacco terroristico all’Europa (e non solo ad essa); gli imponenti flussi migratori verso il Vecchio Continente, che in Italia trovano il loro primo ponte di attracco; lo strappo della Brexit perpetuato da Cameron, che ha dato ufficialmente avvio a una serie di risultati elettorali/referendari modello boomerang; il trionfo elettorale di Donald Trump negli USA e, ultimo avvenimento inserito in copertina, la fine (temporanea?) dell’embargo verso Cuba accompagnato dalla morte di Fidel Castro.

Si tratta di punti di discontinuità che contribuiscono a mettere in discussione, in questo particolare momento storico, il modello di globalizzazione. Stanno cambiando i sentimenti dell’ economia, “uno spirito di disgregazione dell’ordine politico ed economico sembra farsi strada molto rapidamente sia nel contesto internazionale sia all’interno dei singoli paesi. 

Per la prima volta da almeno un decennio, avanzano da più parti dubbi sul modello di sviluppo basato sulla globalizzazione 

Cambia il bisogno e la capacità di rappresentanza politica emergono istanze nazionali e locali”. Tutti preoccupanti segnali che la globalizzazione sembra abbia smesso di essere un modello di sviluppo ideale, iconico. Il modello prevalente. 
Per la prima volta da almeno un decennio, avanzano da più parti dubbi e si fa strada una ricerca di diversificazione, che è anche ricerca di protezione ed affermazione di identità locali e nazionali. Il Centro Einaudi traccia il profilo di un mondo dominato da una crescente incapacità di trovare soluzioni economiche e politiche ai problemi di “un pianeta sempre più preoccupato, sempre meno sorridente”. 
Ma non si limita a denunciare le evidenze che sono sotto i nostro occhi, si sforza di offrire, come suo solito, analisi approfondite, ricostruzioni dei trend in corso e visioni non ortodosse delle cose. Visioni che si possono anche non condividere interamente, ma delle quali non si può non apprezzare la lucidità di analisi. Tra i tanti spunti di riflessione rimane fondamentale quello del restringersi del margine di azione delle politiche economiche in tempi di rendimenti nulli e di “grandi masse di popolazione in sofferenza che troveranno modo di organizzarsi per un’azione politica. Il malessere che  si manifesta in Europa e negli Stati Uniti già mostra una chiara evoluzione in questo senso”. Il lungo trascinarsi della crisi, l’accumularsi del debito, lo scontento strisciante rendono “difficilmente praticabili politiche redistributive volte ad alzare ulteriormente le imposte su chi lavora” e, sottolineano dal centro Einaudi, aprono più facilmente la strada a politiche di monetizzazione del debito pubblico che, almeno nel breve periodo, costituiscono una “salvezza precaria e risicata”. Attenzione, sottolineano però gli analisti, che nel lungo periodo un debito pubblico che non rende nulla comprime i rendimenti dei fondi pensioni che in futuro potranno erogare pensioni molto basse. Insomma il problema non sarebbe disinnescato, ma solo rimandato nel tempo, quando i baby boomers saranno tutti pensionati!

Che fare quindi? Posto che l’unica via di uscita, che ci aiuterebbe ad aggirare i numerosi vincoli di sistema, sia quella di una ripresa vigorosa, diventa fondamentale intercettare la crescita dove c’è.
Occorre trovare il modo di superare il paradosso della mancanza di strumenti di governo economico efficaci proprio quando ne avremmo più bisogno per governare la trasformazione tecnologica, produttiva e sociale che ci attende, con delle armi non spuntate. Per affrontare il mondo nuovo abbiamo bisogno di strategie e visioni. E, poi, di execution.


Il Piano Nazionale Industria 4.0 del Governo Italiano, in questo senso, costituisce un tentativo, a lungo invocato, di dare al Paese una direzione di politica economica, non solo “redistributiva”, ma progettuale. Non va persa tensione verso l’obiettivo di agganciare il futuro. Perché il futuro con tutta la sua rivoluzione dirompente va governato, non subìto. A maggior ragione se nel futuro si profila uno di quei salti non solo tecnologici, ma di paradigma che si presentano poche volte nella storia, con tutte le implicazioni sociali, relazionali e addirittura psicologiche e identitarie più profonde di tutte quelle sin qui delineate dagli esperti di organizzazione industriale. 


Lo aveva capito Asimov quando, nel 1964, scriveva a proposito di cosa saremmo diventati: “La situazione sarà resa più difficile dai progressi dell’automazione. Nel mondo del 2014 ci saranno pochi lavori di routine che l’uomo potrà fare meglio di una macchina. La razza umana diventerà quindi in buona parte una razza di “guardiani di macchine” (machine tenders). I pochi fortunati che potranno svolgere lavoro creativo saranno la vera élite dell’umanità. Soltanto loro, infatti, faranno qualcosa di più che servire una macchina”.
Quanto ci servirebbe un Asimov oggi per intuire quello che ci attende anche solo dietro l’angolo!



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