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Mentre parla, col fervore che nutre la passione, cita Rilke e Alda Merini, Rothko e Brancusi, evoca Louise Bourgeois e “l’art brut” di Jean Dubuffet che rifugge dall’“asfissiante cultura”. 
Nell’ampia vestaglia da lavoro blu, segnata dal biancore del gesso, il fisico minuto s’annulla. E rivela l’intensa, faticosa attività di questa giovane artista nata nel ’78, Paola Ravasio, che ha scelto come mestiere la scultura e, nonostante i consensi già avuti, mantiene la faccia semplice e fresca della ragazza perbene.  

Incontro con la scultrice Paola Ravasio nel suo studio di Caronno Varesino, un capannone “dove si sente pulsare il ritmo di un lavoro paziente, lento. Anche faticoso, sì, ma non per questo meno amato”

Paola sfoggia negli occhi la luce di chi sa guardarti in faccia, la pulizia limpida della bella e buona persona che ?. Puoi cogliere nel fare deciso la febbre del suo “lavoro”: è la parola che predilige, perché esprime al meglio - anche nell’etimo - il “labor” che richiama alla fatica, al suo fare scultura. La parola “arte” lei lascia che sia l’interlocutore ad applicarla al risultato del suo operare. Eppure ha già un curriculum espositivo, nazionale e internazionale, importante.
E la città di Sondrio ha già onorato, lo ricordiamo noi, i risultati dell’impegno di Ravasio. La scoprirono nel 2004. Da allora una sua grande opera è esposta nei giardini pubblici della città. E questo le piace molto: “L’opera ha un destino che è quello, terminato il suo ciclo, di essere consegnata, di trovare una casa, soprattutto di essere vista. Non deve stare nel bunker ma a disposizione di tutti”.
La sua ultima mostra “Forma mentis”, curata dall’ottima Alessandra Redaelli, s’è appena chiusa: abbiamo incontrato lì le sue creature, nella galleria varesina Punto sull’Arte, di Sofia Macchi. Sofia, che arriva dal Nord Europa, ha aperto a Casbeno la sua attività, nello spazio luminoso dove ha  accolto più volte Paola tra gli artisti preferiti. E l’artista ha portato, accanto ai disegni preparatori che segnano e svelano un percorso preciso, piccole sculture in resina e in bronzo, ma anche lavori imponenti, come Genesi, Bios, Archè, Cuspide e altre grandi opere in resina bianca abbagliante. Che, pur nell’inquieta e varia contrapposizione di elementi, nell’intrigo introspettivo, nell’“annidiare” ammiccante, sposano geometria e forma organica in assoluta armonia.

Ma quando siamo nel laboratorio di Paola, nella campagna di Caronno dove è nata, vogliamo parlare con lei. 
Non ti racconta, se le chiedi il perché della scelta, di ricordare il momento in cui è “scattata la fiamma”. Ma un po’ si tradisce, quando spiega che, pur avendo scelto la sua scuola - il liceo artistico varesino dedicato ad Angelo Frattini - come si fa da giovani “inseguendo la leggerezza dell’età”, ha avuto due principali maestri: Bruno Fasola che le ha insegnato l’amore per l’arte. E Pietro Scampini, suo maestro di “bottega”, che le ha offerto l’opportunità, non a molti concessa, di imparare il mestiere, frequentando il suo studio per ben nove anni. 

Dunque la scuola le ha indicato la strada, le ha fatto capire di aver imboccato il cammino che avrebbe poi seguito, con determinazione e coerenza. 

“L’opera ha un destino che è quello, terminato il suo ciclo, di essere consegnata, di trovare una casa, soprattutto di essere vista”

Ma fondamentale è stata quella voglia di usare la forza delle sue mani: “Forse perché avevo un nonno muratore e un padre che faceva il tornitore”. 
Proprio dal padre ha avuto in consegna lo spazio per lavorare: lo stesso nel quale ci troviamo, immenso e sormontato da argani: una vera officina dove giacciono in attesa grandi sculture finite - quelle in resina, candide e levigate - accanto a tante altre ancora da terminare, assieme a calchi e gessi, a attrezzi, strumenti e contenitori vari. Non è facile vedere uno studio d’artista così carico di presenze, così eloquente nel manifestare il tanto lavoro di chi lo usa. E davvero viene da chiedersi, mentre l’artista spiega i diversi passaggi di lavorazione - dall’opera in argilla, che fa e disfa fino allo spasimo, finché ha una sua vita, al calco in gesso, al bozzolo della resina, alla rifinitura meticolosa e infinita nel silenzio che avvolge - quanto coraggio e forza  stanno nella mente e nelle mani della donna minuta che lo governa. 

L’inizio non è stato facile, perché “col diploma in tasca dove vai?” 
L’accademia appena intrapresa non la appagava e non le dava forse le risposte. Decise di avventurarsi a Carrara: l’amore per il marmo, una delle materie preferite, dopo la creta e il gesso, è nato lì, tra le cave di Michelangelo, dove l’incontro con la materia che fa muovere le mani ha il senso alto di un fare nobile e antico, che sa ancora più di  fatica.
Della sua non facile scelta lei non rinnega niente: “Non ho paura di faticare, non mi pesa la fatica, che è in ogni attività umana. 
E neppure la sofferenza che è necessaria. Anzi l’arte ti permette di fissare e contemplare la tua sofferenza”. 

Ma per una donna non è ancora più difficile? “Per una donna è più difficile” ammette. Evochiamo Camille Claudel. Già: Camille, la prediletta di Rodin, aveva fatto una fine non bella. Ammette anche che poche diventano grandi, ma a volte succede l’insperabile: come è accaduto alla Nevelson o alla Bourgeois.
“Ci vuole il megafono per una donna, se si vuole resistere nel tempo. Per farsi sentire. La sordità per l’arte è un male di oggi. Sentimento umano e spirito non sappiamo più cosa sono”. 
Ma gli artisti non hanno colpa? “Anche noi artisti, è vero, siamo spesso isolati, non sempre tra di noi c’è dialogo, nel quotidiano ognuno pensa a sé e l’arte è debole anche per questo. Dobbiamo invece, tutti insieme, riscoprire la memoria storica, il Novecento ci ha già mostrato e insegnato cose meravigliose, ha tracciato strade nuove, ci dovrebbe avere aperto gli occhi”.  
Come dire che dobbiamo imparare tutti a fare uno sforzo, a capire chi, tra artisti, critici, galleristi, collezionisti ha le carte in regola, oppure no, per intendere e accogliere.
“A volte poi, osservando certe proposte d’arte sembra che tutto sia legittimato, l’arte invece non deve fingere, così come non deve impaurire. E non deve essere semplicemente ‘comperata’, ma compresa e amata da chi la desidera. Chi va in cerca dell’arte per farla sua, deve avere cuore e mente liberi da condizionamenti di mode o di cassetta. Se vuoi portarti a casa un lavoro di un artista devi entrare nel lavoro, lo devi sentire.”

Paola è qui nella sua Caronno, “in un capannone nel cuore della campagna lombarda - ha scritto Redaelli nel bel testo in catalogo della mostra Forma Mentis - dove si sente pulsare il ritmo di un lavoro paziente lento, caparbio. Anche faticoso, sì, ma non per questo meno amato in tutte le sue fasi”. 
Chissà se questo luogo felice saprà valorizzare la presenza forte di artisti che forse altrove ci invidiano. 
Sondrio ha capito: Varese farà mai altrettanto? Ripercorrerà un passato, non remoto, che alla scultura guardava con massimo interesse? Origgio, anni addietro, spalancò le porte addirittura all’opera della Bourgeois e continua a farlo, con altri nomi che contano. 
E noi?  



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