Quello che al Museo d’arte di Mendrisio si può vedere di “Per Kirkeby”, titolo della retrospettiva ma anche nome del pittore e scultore danese cui la stessa è dedicata - una prima assoluta in ambito italico - rappresenta solo una parte, per lo più recente, del cammino di un’ampia e complessa ricerca d’artista iniziata precocemente negli anni Sessanta con Beuys, Maciunas e il movimento Fluxus. E quando si parla del cammino di Kirkeby, nato a Copenaghen nel 1938, con Gerhard Richter, Sigmar Polke, A.R. Penck, Markus Pupertz e Georg Baslitz  figura centrale degli anni Settanta e della nuova pittura di fine Novecento, non lo si intende solo in senso metaforico. Perché il grande intellettuale che lui è - oltre che artista, pittore, scultore e scenografo, anche cineasta, scrittore e sceneggiatore - non sarebbe stato tale se tutto non fosse partito dall’interesse per il mondo che lo ha spinto a viaggiare. Forte di una laurea in geologia artica, ha viaggiato in Groenlandia, amata terra di luce, oggetto per lui di infinite spedizioni, ma anche in Germania, Inghilterra, Italia, e in America, in Asia e Africa e in Australia e Nuova Zelanda, e in ogni luogo in cui gli venisse voglia, o gli toccasse la necessità di andare. 

A Mendrisio omaggio al maestro danese Per Kirkeby

Il termine che meglio inquadra la sua vita, e un’infanzia iniziata nel non facile periodo dell’occupazione tedesca in terra danese, è proprio quello di esploratore. Esploratore di nuove terre, ma anche indagatore avvinto da sempre nuove esperienze, e infine, a conferma di una poliedricità che ha un senso finale ben definito, esploratore soprattutto dell’animo umano. Perché tutto in lui tende lì, a snidare l’uomo dal bozzolo nel quale la vita ci avvolge e, a volte, ci imprigiona. Dietro quella protezione di carne e di spirito, di cuore e di mente, sembra volerci dire Kirkeby, c’è una mappa interiore, dove i percorsi tracciati sono i fili di ragionamenti ed emozioni da decifrare, e tradurre in mattoni di vita, giorno per giorno.

Il tesoro finale sta in fondo alla caverna, nel barlume di luce che promana da ogni cavità in cui i curiosi, cioè gli ammalati di curiositas come lui, si vanno a cacciare.

Osserviamo le opere della mostra di Mendrisio, curata da Simone Soldini. Parliamo di trentatré  tele di grandi dimensioni, trenta opere su carta e sei sculture. Il più delle volte raccontate senza titolo, ma sovente inserite in una serie numerata di lavori convergenti sullo stesso tema, quasi fossero i diversi spartiti di una sola  sinfonia.  C’è il grande “maestro” Cézanne in tanti di quei suoi quadri, nelle pennellate larghe e nel  fittume boschivo di colori verdi e aranciati e bruni, e c’è l’amato Van Gogh nelle linee contorte e dense di caldo colore (si vedano “Riposo-Paesaggio X” del 1988 e “Ritorno dall’Egitto I”, un olio del 2000), ma, attenzione, sembra esserci anche il mondo delle idee di Platone: ad esempio nella serie degli “Inverni”  esposti, assieme alle sculture, nella sala grande del museo.

La speleologia, riflessa in alcune delicatissime opere dalle trame leggere, così come nelle  sculture in bronzo dalle superfici aspre e contorte che raccontano le sue preferenze per altri due maestri, Rodin e Giacometti, è del resto una delle passioni, anzi, la prima delle passioni. Kirkeby nasce come geologo, mestiere e malattia di famiglia, ereditata da una stirpe di innamorati del mondo e della natura.

Intellettuale e, allo stesso tempo, indagatore di nuove esperienze e soprattutto dell’animo umano

I suoi quadri, apparentemente astratti, però sempre legati a soggetti reali, sono un canto perenne alla natura. Ha dichiarato più volte Kirkeby che mai le sue opere prescindono dall’osservazione della realtà: alla base può esserci uno schizzo, una fotografia, anche solo una fuggevole impressione fissata sulla retina, poi archiviata in un link  del cuore, poi  tradotta, quando arriva il momento, in soggetto artistico. 

A rivelarlo sono soprattutto gli abbozzi di paesaggi espressi da gouaches e acquarelli, dove il livello raggiunto, andate a vederli, è altissimo: per combinazioni cromatiche, levità di racconto e pulizia segnica. La Nuova Zelanda con il verde fitto della vegetazione dirompente, la Groenlandia con la sua luce adamantina - che se non la vede gli manca, e per questo deve tornare a cercarla ogni qualche anno tanto da esserci stato ben venti volte per altrettante spedizioni - gli dettano atmosfere, colori e contorni paesaggistici che non hanno nulla da invidiare a quelli del miglior Turner, da lui amatissimo.  

La sua passione per la scrittura lo ha spinto a indagare nella vita e nell’arte dei massimi artisti, da Van Gogh a Monet, da Cézanne a  Munch, da Rodin a Giacometti,  e tutti quelli che gli piacciono e lo incantano. Li racconta, li studia, li spia, li confronta in un’appassionata ricerca senza  fine.  La sua arte e la sua intera opera gli hanno fatto conquistatare premi e riconoscimenti di altissimo profilo internazionale.

A Mendrisio, trentatré  tele di grandi dimensioni, trenta opere su carta e sei sculture. Quasi fossero i diversi spartiti di una sola  sinfonia

Kirkeby era presente a Mendrisio il giorno dell’inaugurazione della mostra, nonostante il suo fisico non gli consenta più di andare come gli piacerebbe. Ma ha risposto alle domande curiose dei presenti con il distacco, l’ironia bonaria e la semplicità di chi, avendo già molto viaggiato e camminato, ha ora il diritto di osservare con sguardo saggio i percorsi di altri viaggiatori.  Nei suoi quadri, che hanno viaggiato in rassegne internazionali per il mondo, che sono presenti nei musei europei e americani, nelle sue sculture senza tempo, c’è ormai il mondo intero. E in ciascuna opera brilla un raggio di luce, memoria e tesoro di quella mai sopita voglia di andare.

Voglia che Erik Steffensen ricorda nel catalogo della mostra, con  le stesse parole dell’artista:

“Sentivo il bisogno di partire per mete lontane, in cui disegnare col cappello di paglia in capo per ripararmi dal sole cocente, mentre sognavo della trasparenza polare e dei corsi di acqua gelida della mia prima spedizione. Era un inizio, e in un certo qual modo io sono ancora lì”.

 

 

 



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