Fin dall’inizio della crisi economica, c’è una domanda che più di altre si è ripresentata con puntualità nel dibattito economico: perché a parità di condizioni di contesto alcune imprese vanno bene e altre no? La risposta si è sempre concentrata su due caratteristiche, l’innovazione  e l’internazionalizzazione, sicuramente determinanti nel successo di un’impresa, ma di per sé non sufficienti a spiegarlo.

Quando, come e perché la personalità e la preparazione di un imprenditore o un manager fanno la differenza nel successo di un’azienda? Quando il singolo riesce a diventare fattore competitivo? Le risposte nella ricerca “Sussidiarietà e… politiche industriali” presentata alla LIUC – Università Cattaneo

Il Rapporto sulla sussidiarietà 2015/2016 (“Sussidiarietà e… politiche industriali”), presentato alla LIUC – Università Cattaneo, individua le ragioni di questa eterogeneità di risultati delle imprese italiane nel capitale umano. I tratti caratteriali dell’imprenditore inciderebbero dunque in modo non meno rilevante delle tradizionali variabili strutturali. Il campione su cui si basa il rapporto è composto da 380 imprenditori e manager di imprese attive in quattro settori centrali del made in Italy (abbigliamento-tessile, agroalimentare-ortofruttta, macchine utensili, legno-arredo). Dalle informazioni raccolte sono stati identificati, a parità di altri fattori, quei comportamenti che spiegano i risultati dell’impresa in termini di redditività, presenza sui mercati esteri e capacità di innovare. Per esempio, a parità di altre condizioni, la tendenza a cooperare porterà a una crescita del fatturato, a maggiori margini, a essere presente sui mercati esteri e a innovare sul prodotto e sui processi di produzione. Così come l’apertura all’esperienza porta l’impresa a essere più internazionalizzata. Di contro, il conformismo indotto da fattori esterni non è in grado di creare altrettanto valore.

Secondo Giorgio Vittadini, docente di statistica alla facoltà di economia dell’Università Milano Bicocca e presidente della Fondazione per la sussidiarietà, alcuni fattori sono doti innate, mentre altri possono formarsi nel tempo grazie al contesto sociale in cui si forma la persona, i suoi rapporti familiari e sociali e i valori che vengono trasmessi, l’istruzione e la formazione professionale, l’esperienza accumulata nel tempo.

A parità di altre condizioni, la tendenza a cooperare porterà a una crescita del fatturato, a maggiori margini, a essere presente sui mercati esteri e a innovare sul prodotto e sui processi di produzione

Una recente ricerca sui fattori competitivi alla base del successo di alcune pmi del Varesotto e dell’Alto Milanese, condotta dall’Institute for entrepreneurship and competitiveness della LIUC e da Deloitte, conferma alcune conclusioni contenute nel Rapporto sulla sussidiarietà. “Spesso si pensa che dietro il successo di un’impresa - dice Giovanni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria con delega al Capitale umano - ci sia un imprenditore con la stoffa del fantasista di talento in grado di risolvere la partita con un guizzo, un colpo di tacco. Se questa immagine per alcune storie imprenditoriali è vera, per la maggior parte dei casi, anche quelli più recenti, più che nella, seppur necessaria, capacità di visione dell’imprenditore, il segreto sta nella lungimiranza dello stesso di essere stato in grado di circondarsi di una squadra all’altezza delle sfide e di aver selezionato e portato dall’esterno quelle doti manageriali che prima erano assenti in azienda. Ciò fa del “Capitale umano” la chiave di volta competitiva di ogni singola impresa, e con essa, di tutto il sistema produttivo”. 

Brugnoli sottolinea l’esistenza di una nuova categoria relativa all’innovazione, non riferibile alla tecnologia in senso stretto e nemmeno a quel concetto di “innovazione incrementale” così caro alle pmi, ma legata alla figura dell’imprenditore e alla sua capacità di reinterpretare il proprio ruolo e quello dell’impresa facendo leva su due caratteristiche distintive, cooperazione e la collaborazione, senza le quali è ben difficile pensare di dar vita a reti di impresa o a nuovi cluster tecnologici. “Questi imprenditori - spiega il vice presidente di Confindustria - danno prova di reinterpretare in chiave moderna il concetto di distretto industriale, facendo importanti investimenti nella formazione e nell’aggiornamento del proprio personale, nella comunicazione, con l’obiettivo di aumentare la cultura d’impresa nella comunità di riferimento”.

Il rischio di enfatizzare troppo la figura dell’imprenditore, in caso di successo, o di demonizzarla, in caso di fallimento, è fin troppo evidente. Se questa soggettività è però così decisiva nel distinguere l’identità di un’impresa, allora non può essere ignorata e soprattutto va aiutata a dialogare con il mercato.

C’è un passaggio del rapporto, sottolineato nelle conclusioni da Bernhard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, che individua questa possibilità nel collegamento esistente tra la passione imprenditoriale e il senso di responsabilità nel perseguire sia il buon fine per l’impresa, sia per le persone a essa collegate. Una consapevolezza che non è tanto il frutto di un meccanico apprendimento di nozioni, competenze e conoscenze, quanto piuttosto di una maturazione personale che permette all’imprenditore di essere più libero e più attento alle ricadute del proprio modo di fare impresa sulla comunità. “Proprio chi è cosciente di quanto la sua personalità incida sul bene comune - scrive Scholz - non può non desiderare una crescita e una maturazione di sé”.



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