Il punto di partenza: i grandi temi delle imprese a proprietà familiare  non possono essere affrontati e risolti utilizzando i cinguettii di Twitter.  Tesi del tipo “La prima generazione crea, la seconda consolida e la terza distrugge” suonano ad effetto, qualche fondamento potrebbero averlo, ma non aiutano. Non c’è ricetta che tenga. C’è solo una  dieta  fatta di confronto, di  apertura, di metodo. Da impostare rigorosamente, con il supporto  di ricerche, di letture, di testimonianze, di best e di worst practices. Come per tutte le diete, serve tempo e vanno messi in conto dei sacrifici. 
Qualche indicazione, a cavallo tra dottrina aziendalistica e pratica professionale.

Come hanno reagito le imprese familiari alla crisi? Che contributo danno alla competitività le nuove leve dell’imprenditoria varesina? Con quali strategie vengono affrontati i passaggi generazionali? Domande a cui cercherà di dare una risposta una ricerca avviata dal Gruppo Giovani Imprenditori e Spi Srl, insieme alla LIUC

La prima: conoscere il “nemico”. Nulla di nuovo sotto il sole: processi di inserimento di membri della famiglia che prescindono  dalle competenze;  meccanismi di remunerazione che non tengono conto delle responsabilità e dei risultati conseguiti; comportamenti opportunistici nell’utilizzo delle risorse aziendali;  difficoltà di convivenza tra generazioni o nell’ambito della stessa generazione; meccanismi di comunicazione inefficaci se non assenti;  resistenze e inerzie nel far fronte ai problemi. Ogni azienda e ogni famiglia imprenditoriale fanno storia a sé, come ben sa chi le frequenta da vicino. Un comune denominatore tuttavia c’è e risiede in un’impostazione dei rapporti che, istintivamente più che deliberatamente,  tende a  privilegiare obiettivi ed aspettative della proprietà rispetto alla competitività dell’impresa. Un’impostazione fortemente condizionata dal “familismo”. 
La seconda: mettere l’imprenditore (il capo-azienda, il leader della famiglia, la generazione “senior”...) di fronte alle proprie  responsabilità. Vie facili, come detto,  non  ce ne sono. 
C’è innanzitutto da lavorare sulla trasmissione e sulla reinterpretazione  del patrimonio di valori familiari e aziendali (la sobrietà dello stile di vita,  la tensione all’unità e all’armonia, la trasparenza, lo spirito di sacrificio, la dedizione alla causa...). L’imprenditore che rifugge il familismo e vuole costruire il futuro deve testimoniare i valori con i fatti quotidiani, deve inventarsi momenti di comunicazione e percorsi educativi rivolti alle nuove generazioni, deve introdurre e proteggere logiche meritocratiche, deve codificare i principi fondanti della famiglia proprietaria all’interno di un documento scritto... In fondo in fondo, deve guardare più alle competenze e alle motivazioni che al cognome. C’è poi da investire sulla governance, sviluppando strumenti che disciplinino i processi decisionali del tavolo della famiglia rispetto a quello dell’azienda. Tanto per esemplificare: bisogna separare le sedi nelle quali i soci discutono le scelte fondamentali della proprietà da quelle dove si affrontano le decisioni sull’azienda. Per favorire la coesione della compagine familiare e per filtrare le ripercussioni negative che i dissensi tra i soci possono avere sul funzionamento dell’azienda non bastano le buone intenzioni. Servono  meccanismi di natura giuridico-istituzionale ad hoc, servono modelli organizzativi ad hoc. Un altro esempio: è necessario far valere il principio guida di qualsiasi sistema di governance, l’accountability, cioè chi risponde a chi, e di che cosa. Se non è una rivoluzione, poco ci manca, anche perché ai famigliari  si chiede una convinta adesione ai valori di una gestione trasparente e responsabile verso tutti gli stakeholders e un forte senso di autodisciplina  nei differenti organi in cui siedono.

“C’è da investire sulla governance, sviluppando strumenti che disciplinino i processi decisionali del tavolo della famiglia rispetto a quello dell’azienda”.

La terza: dare spazio ai giovani “di valore”.
Imprenditori si può diventare, ma alcuni passaggi rimangono obbligati. Soprattutto il fatto di impostare la questione in chiave formativa. Esiste certamente una piccola percentuale di giovani che sin dalla più tenera età manifestano di essere inadatti ad una qualche attività imprenditoriale perché, ad esempio, molto timidi o insicuri. Così come esiste una percentuale di giovani che esprimono sin da piccoli doti di leadership e una spiccata propensione ad assumersi rischi e a prendere decisioni impegnative. La stragrande maggioranza dei giovani è però un libro bianco sul quale, a seconda di una serie di condizioni, sarà scritta o non scritta, una storia imprenditoriale. Alla larga quindi da slogan del tipo “imprenditori si nasce!” oppure “imprenditori si deve diventare per logiche dinastiche”. Nel primo caso, il “doverlo  essere” rischia di definire a priori la strada da percorrere,  con il risultato di soffocare lo spirito  di libertà, condizione vitale per sviluppare il senso dell’intrapresa. Nel secondo caso, le energie dei giovani (e dei loro genitori) vengono  sprecate ricercando segnali  e conferme  della presupposta predisposizione naturale all’imprenditorialità. L’ansia da risultato, il timore di commettere errori, il passare del tempo completano il disastro. I giovani imprenditori “di valore” sono il frutto di un lavoro paziente, costituiscono il risultato di un processo fatto di dettagli, sartoriali e non standardizzabili, che vanno dalla verifica della vocazione alla pianificazione delle opportune attività ed esperienze, dalla gestione dell’ingresso in azienda al successivo percorso di carriera, dalla legittimazione di ruolo allo sviluppo di abilità relazionali e di networking. 
Le ricerche sulle imprese familiari giunte alla terza o alla quarta generazione convergono su un elemento e cioè il fatto che ogni generazione ha aggiunto qualcosa alla tradizione imprenditoriale della famiglia. Se ciò è vero, e se ogni generazione deve interrogarsi sulle innovazioni imprenditoriali da introdurre per poter almeno mantenere il successo conseguito dalle generazioni precedenti, la conclusione è immediata: da qualche anno a questa parte, per molti giovani  le asticelle si sono alzate, e non di poco. Mercati difficili, concorrenza agguerrita, pressione al cambiamento che morde alle calcagna. Ed eccoci al punto: negli scenari della Grande Crisi, che cosa hanno fatto i giovani imprenditori? Come hanno reagito? Quali contributi hanno apportato?

“La stragrande maggioranza dei giovani è un libro bianco sul quale, a seconda di una serie di condizioni, sarà scritta o non scritta, una storia imprenditoriale”.
 

A domanda,  risposta:  la  ricerca progettata dai docenti della LIUC – Università Cattaneo coordinati da  Valentina Lazzarotti e promossa dal Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese, in collaborazione con la società di servizi alle imprese SPI – Servizi & Promozioni Industriali Srl, dal titolo autoesplicativo: “Innovazione, internazionalizzazione e performance: il contributo di noi giovani imprenditori”.
Rigore di metodo e forte coinvolgimento degli intervistati, il progetto è sulla retta via. I risultati, attesi per la primavera, saranno più articolati e profondi di un cinguettio. Con i  tempi che corrono, valore al merito dei promotori! ?



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