“Diciamolo, potevano di certo scriverla meglio”. Questo, ai sostenitori del No al referendum costituzionale del 4 dicembre, lo concede il professore Alberto Malatesta, Direttore della Scuola di Diritto della LIUC – Università Cattaneo. Ma per il resto “la riforma introduce maggiore stabilità dei governi e una maggiore efficienza nel funzionamento delle Istituzioni”.

Il Comitato del No, però, sostiene che il bicameralismo differenziato non sia per forza sinonimo di maggiore rapidità legislativa.

Mi sembra un giudizio difficilmente condivisibile. La stragrande maggioranza delle materie farà capo, da un punto legislativo, alla sola Camera, evitando il meccanismo “navetta” che è dagli anni Settanta che il Paese tenta di superare. Si poteva fare di meglio, forse, e semplificare ancora di più, ma oggettivamente si tratta di un grande passo avanti dopo decenni di discussioni e immobilismo.

Cosa risponde, invece, a chi dice che legare la fiducia del Governo alla sola Camera dei deputati non porti a una maggiore stabilità, più dipendente da questioni di tenuta della maggioranza?

In parte è vero, la stabilità è data più dalla legge elettorale che non da chi e come ha il potere di dare e togliere la fiducia all’Esecutivo. Detto, questo, però, c’è un’oggettiva semplificazione. Non avremo più, per esempio, un Governo che per rimanere in vita deve fare i conti con due maggioranze diverse nei due rami del Parlamento. La possibilità data poi all’Esecutivo di avere dalla Camera un voto entro una data certa su una sua proposta di legge è un punto forte della riforma.

Qui, però, si innesta la polemica di chi dice che i maggiori poteri dati al Governo non siano controbilanciati da contrappesi sufficienti.

Francamente non mi convince e credo sia insostenibile la tesi di chi pensa sia a rischio la tenuta della democrazia. Viene data maggior forza allo strumento del referendum, con l’introduzione di quello propositivo e l’abbassamento del quorum per quello abrogativo. Insomma, aumentano i poteri del Governo, ma in una giusta ottica di riequilibrio di un sistema, quello attuale, caratterizzato da eccessivo assemblearismo. Ciò in linea con tutti i sistemi costituzionali europei.

Rapporto Stato-Regioni: anche qui i contrari alla riforma contestano che venga veramente messa mano sugli errori fatti con il Titolo V. C’è chi parla anche di un neo-centralismo statalista.

Diciamo innanzitutto che il Titolo V così come è adesso è insostenibile. Il contenzioso in Corte Costituzionale sulla legislazione concorrente è arrivato a dei livelli incredibili. Con la riforma, invece, si va verso il modello di due diversi campi di azione, uno in mano allo Stato e uno alle Regioni. Anche qui, si semplifica. Non si può poi parlare di centralismo visto che è dato al Senato il ruolo di camera delle Regioni. L’introduzione del fallimento politico che permette al Governo di sostituirsi a quelle amministrazioni locali in grave dissesto finanziario è poi un punto a favore della riforma, anche alla luce di molte vicende giudiziarie legate alla gestione dei soldi pubblici. Un dato, però, è certo e va ammesso: questa è la parte peggio scritta della riforma.

I No ne fanno anche una questione di forma: per loro si tratta di una riforma illegittima perché approvata da un Parlamento eletto con una legge elettorale (il Porcellum) dichiarata incostituzionale.

Questa è l’argomentazione più sterile. Sulla legittimità della riforma non ci sono dubbi: è stata approvata con doppio voto sia alla Camera, sia al Senato, come prevede la Costituzione. E, in più, ora è rimessa alla volontà popolare con referendum. Più di così, francamente… E poi non dimentichiamo che non stiamo parlando di uno stravolgimento della Costituzione, la cui prima parte, quella dei principi fondamentali, non viene minimamente toccata. Se poi il problema è come sia stato votato il Parlamento in carica, allora la legittimità riguarda qualsiasi legge approvata dalla sua elezione ad oggi.

 

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