ph_Ricochet64_StockAdobe_com.jpeg

Le imprese a controllo straniero rappresentano il 15% del valore aggiunto nazionale e il 22% di tutta la spesa privata in ricerca e sviluppo. Una realtà dunque fondamentale per l’economia italiana, che concentra la propria presenza soprattutto in Lombardia. E Varese non è da meno. Il nostro Paese, però, potrebbe fare meglio nella capacità di attrarre i capitali da oltre confine. A patto che anche le istituzioni locali facciano la propria parte

Il trend prima della pandemia era in aumento. Gli investimenti esteri in Italia nel 2018 (ultimo dato disponibile) erano saliti del 10,5%, arrivando a quota 24,3 miliardi, contro i 21,7 miliardi dell’anno precedente e facendo passare il nostro Paese dal 19esimo al 15esimo posto nella classifica mondiale della capacità di attrarre capitali stranieri. Poi è arrivato il Covid. E con esso la crisi economica globale. Ma non è solo una questione di rallentamento delle attività e di calo dei consumi. Sono tutte le dinamiche internazionali alla base delle catene del valore ad essere in fibrillazione e profondo cambiamento. Fenomeni di reshoring, il maggiore grado di regionalizzazione delle filiere di fornitura, la riduzione della distanza media degli scambi. Lo scenario con cui tutte le imprese, comprese quelle italiane e varesine, devono fare i conti si sta ricomponendo su nuove basi, come evidenzia la pubblicazione I nuovi percorsi dell’industria italiana nel mondo che cambia realizzata dal Centro Studi Confindustria. Risultato: gli investimenti esteri diretti (i cosiddetti Ide, come recita l’acronimo usato dagli esperti economisti) nel 2020 si sono ridotti del 40% a livello globale. Un calo che non si arresterà nel breve periodo. Anche per il 2021 le previsioni parlano di un’ulteriore flessione tra il 5 e il 10%. Il segno più tornerà solo nel 2022.

Rimane il fatto, però, dell’importanza che rivestono i capitali stranieri nello sviluppo dell’economia italiana e nella costruzione del benessere delle varie comunità locali, non ultima quella del Varesotto, tra le più internazionalizzate del Paese. Non solo in termini di capacità di export. Ma anche di presenza di multinazionali sul territorio. Secondo la pubblicazione Grandi imprese estere in Italia: un valore strategico, realizzata da Confindustria, pur rappresentando solo lo 0,3% del numero di aziende del Paese, le multinazionali a capitale estero danno lavoro all’8% agli occupati del settore privato nazionale, generano il 15,3% del valore aggiunto, il 18,3% del fatturato e il 17,5% degli investimenti italiani. Non solo. Rappresentano anche uno spaccato che fa da molla per il progresso. Le imprese a controllo straniero, infatti, finanziano il 22,4% della spesa privata in ricerca sviluppo. Parliamo di circa 3,3 miliardi di euro ogni anno. Questo il contributo garantito all’economia nazionale. Quando conviene aprire le porte allo straniero, verrebbe da dire. L’effetto è moltiplicatore. Confindustria stima che per ogni euro investito da una grande impresa straniera “si determina nell’intera economia una crescita complessiva della produzione industriale di circa 3,3 euro, considerando effetti diretti e indotti”. 

Il 68,5% dei dipendenti delle imprese a controllo estero e il 76% del valore aggiunto da esse generato si concentrano nel Nord-Ovest. A farla da padrone è la Lombardia che conta il 32,3% degli addetti e il 38% del valore aggiunto

Stesso ragionamento vale a livello occupazionale: per ogni lavoratore di una grande multinazionale estera si genera nell’indotto una media di 4,6 posti di lavoro aggiuntivi. “Questi dati — spiega la pubblicazione di Confindustria — evidenziano il beneficio derivante dalla presenza delle imprese estere per le Pmi con le quali sono legate da rapporti di filiera”.  Ma non è solo una questione di catene di fornitura: la presenza delle multinazionali sul territorio favorisce “la trasmissione di nuova conoscenza, trasferimento tecnologico, spinta all’introduzione di nuovi processi produttivi, miglioramento delle competenze”. Ma soprattutto: “Accesso a reti di produzione internazionali (global value chain) e a nuovi mercati”.
Questi i vantaggi per noi. Ma cosa spinge così tante società straniere a investire in Italia? Il fatto di essere un grande esportatore di beni manufatti, di possedere manodopera qualificata ed eccellenze sul fronte della ricerca e sviluppo, la forte presenza di imprese a conduzione familiare che creano interessanti opportunità di investimento nel momento del passaggio generazionale. Ma su tutti: “La presenza di filiere produttive strategiche di eccellenza e dei distretti industriali”. Questi i punti di forza dell’Italia nell’attrarre capitali stranieri.

Bene, dunque. Ma non benissimo. Potremmo fare di meglio. Se è infatti vero che siamo 15esimi a livello mondiale, siamo pur sempre l’ottava potenza industriale del pianeta. Ci sono ampi margini di miglioramento. Soprattutto se si pensa che, prima dell’exploit pre-pandemia del 2018, l’Italia veniva da anni in cui l’andamento era pressoché piatto e costante. Perché se è vero che il contesto economico ha molti pregi in grado di fare da calamita, quello politico e istituzionale sono un freno per chi all’estero ha in mano il portafoglio e deve decidere dove investire per far fruttare le proprie risorse. Il sistema burocratico, la lentezza della giustizia, un sistema fiscale complesso, un quadro normativo instabile, che fa da specchio ad un altrettanto magmatico sistema politico. Ecco perché lo straniero è spaventato dall’Italia: “Perché, diversamente dal rischio, l’incertezza non è calcolabile”. E noi ne offriamo sempre molta, di incertezza. Risultato: “L’Italia ha attirato meno investimenti esteri rispetto alle maggiori economie europee”.

Lo studio di Confindustria: “La presenza delle multinazionali sul territorio favorisce trasmissione di nuova conoscenza, trasferimento tecnologico, spinta all’introduzione di nuovi processi produttivi, miglioramento delle competenze”. Ma soprattutto: “Accesso a reti di produzione internazionali (global value chain) e a nuovi mercati”

La politica può fare molto. E non solo quella nazionale. Ne è convinta Confindustria: “Il sistema di governo locale è uno snodo cruciale per favorire il buon risultato degli investimenti e mantenerli attivi”. Regioni e Comuni hanno un ruolo importante. D’altronde le differenze a livello regionale sono notevoli. Il 68,5% dei dipendenti delle imprese a controllo estero e il 76% del valore aggiunto da esse generato si concentrano nel Nord-Ovest. A farla da padrone è la Lombardia che conta il 32,3% degli addetti e il 38% del valore aggiunto. Ad essere fortemente internazionalizzata è anche la struttura produttiva varesina, che è sì, fatta da tante piccole e medie imprese, ma dove è radicata anche la presenza di aziende a controllo straniero. Un elenco esaustivo è impossibile. Bastano solo alcuni nomi suggestivi per dare, però, l’idea: Whirlpool, Vodafone Automotive, Carlsberg, Carl Zeiss, Hupac, Bilcare, Lindt & Sprüngli. Se a questi nomi aggiungiamo quelli delle grandi imprese a controllo nazionale, come, ad esempio, Leonardo o Tenova, un rapido conto nella base associativa dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese (pur senza pretesa di valenza a livello statistico) porta il pallottoliere occupazionale delle multinazionali del territorio a quasi 19mila lavoratori, più del 17% del totale degli addetti manifatturieri impiegati nell’economia locale. E con benefici che travalicano il proprio stretto perimetro e che si dipanano sul territorio con effetti indiretti e indotti. 

A calcolarli su se stessa è stata, per esempio, Sanofi, la multinazionale francese presente con un proprio insediamento produttivo a Origgio, nel saronnese, centro di produzione mondiale dell’Enterogermina e dove si produce anche il Maalox. Un sito che impiega più di 140 dipendenti e in piena espansione. Lo dimostrano i 12,4 milioni di euro di investimenti realizzati nel solo 2019. Ebbene proprio a Origgio, Sanofi genera un Pil di 21 milioni di euro l’anno. Di questi 14 milioni sono il contributo diretto dell’impresa, mentre gli altri 7 milioni sono il prodotto del contributo indiretto grazie all’attivazione della catena di fornitura e dell’indotto generato dalle famiglie (con almeno un componente impiegato) sul territorio. Per ogni euro di Pil prodotto, in pratica, Sanofi ne attiva altri 0,5 nell’indotto. Così è anche a livello di mercato del lavoro: ogni 2 persone impiegate creano almeno un’altra posizione nell’indotto. Ogni euro di reddito da lavoro in Sanofi, ne genera altri 0,27 nell’economia locale. Quando l’internazionalizzazione è sinonimo di crescita, benessere e innovazione.   

 

Per saperne di più leggi anche:



Articolo precedente Articolo successivo
Edit