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Un messia bianco in grado, negli anni Settanta e Ottanta, di mobilitare aiuti per l’Uganda da ogni parte d’Italia, sostenuto dal governo e da facoltosi mecenati. Il giornalista e scrittore Gianni Spartà ripercorre in un libro, con prefazione di Papa Francesco, la vita del missionario varesino soprannominato il “Panzer di Dio”, Vittorio Pastori, nato con un destino “segnato”: aiutare gli ultimi 

“Chi ha fame, ha fame subito”, era il mantra di Vittorio Pastori, nato nel 1926 all’ombra della Basilica di San Vittore con un destino “segnato”, quello di aiutare gli ultimi della terra, a qualunque costo. Aveva una vita tranquilla, un ristorante ben avviato che serviva la crème di Varese (industriali, professionisti e intellettuali), ma la sua missione era un’altra, quella di dare da mangiare agli affamati del Karamoja, una delle aree più povere e a rischio dell’Uganda, teatro di sanguinose guerre intestine. Così Vittorio Pastori diventò Don Vittorione, un uomo gigantesco di oltre 200 chili, un messia bianco in grado di mobilitare aiuti da ogni parte d’Italia, sostenuto dal governo Andreotti e da facoltosi mecenati. Ora la sua figura è ricordata da un libro del giornalista e scrittore Gianni Spartà e pubblicato da Pietro Macchione, “Don Vittorione l’Africano”, un affresco lungo una vita, con la prefazione di Papa Francesco, che racconta nei dettagli l’avventurosa esistenza di un benefattore che a 58 anni fu ordinato sacerdote dal vescovo di Gulu, Cipriano Kiangire, in una toccante cerimonia al Palazzetto dello Sport di Varese. Il libro esce in occasione dei cinquant’anni di Africa Mission-Cooperazione e Sviluppo, la Ong fondata a Piacenza da Vittorione e dal vescovo di allora Enrico Manfredini, già prevosto di Varese e poi arcivescovo di Bologna. Don Vittorione, passato alla storia come il “Panzer di Dio” o “Bulldozer della Provvidenza”, metafora coniata dal cardinale Ersilio Tonini, incominciò come chierichetto in Basilica e poi cerimoniere, non ancora colpito dalla disfunzione ghiandolare che gli fece prendere peso condizionandogli la vita, ma non facendogli mai perdere di vista la missione alla quale si era votato.

Gianni Spartà, conosceva già la storia di Vittorio Pastori?
No, quella vera, profonda, carica di virtù spirituali per chi crede, di straordinari slanci umanitari per chi è scettico, non la conoscevo. Sapevo del ristoratore extralarge che aveva smesso di servire primi e secondi ai ricchi di Varese per correre a sfamare gli ultimi in Africa. Sapevo che lo criticavano quando andava in tv da Mike Bongiorno e dalla Carrà a parlare di bambini denutriti, di morti per sete, di guerre e carestie. L’invidia rende stupidi. 

Facciamo un riassunto della vita di Don Vittorione.
Vittorio Pastori è stato collaboratore di sacerdoti e partigiani cattolici durante il fascismo, quando bisognava aiutare dissidenti ed ebrei a espatriare in Svizzera, guadando il fiume Tresa. In questa schiera di intrepidi preti varesini, spicca immensa la figura di Don Natale Motta. Poi Vittorione ha fatto l’educatore nelle colonie della Pontificia Opera Assistenza a guerra finita, quando occorreva sottrarre alla vendetta sbandati e figli dei vinti. Nato e vissuto con la Basilica di San Vittore appiccicata alla sua casa, l’allora Vittorino non poteva immaginare simili coinvolgimenti. Lui faceva il chierichetto, organizzava processioni, la guerra con i suoi traumi gli ha cambiato la vita. Cominciò a gonfiarsi patologicamente al ritorno da un lungo internamento da rifugiato nel cantone di Berna.

Quando arriva la svolta missionaria?
Quando Don Enrico Manfredini, prevosto di Varese, diventa vescovo a Piacenza e convince Vittorione a occuparsi dell’Africa al suo fianco. Gli dice: chi ha fame, ha fame subito. E lui comincia a organizzare viaggi in Karamoja, la regione più povera dell’Uganda, chiedendo ai partecipanti di riempire le valigie di cibo. Hanno fame anche i missionari. Le valigie in breve tempo diventano container e aerei cargo. Giulio Andreotti sposa la causa della cooperazione internazionale, siamo negli anni ’70-‘80 e mette a disposizione di “Africa Mission”, fondata da Vittorione e Manfredini, Hercules C 130 dell’Aeronautica militare. È un fantastico ponte solidale che dopo 50 anni sta ancora in piedi.

Cosa l’ha colpita di più della sua figura?
Ciò che egli chiese alla Madonna Addolorata nella Basilica di San Vittore quando aveva 10 anni: voglio diventare prete, madre di Dio aiutami. Se c’è stata intercessione, l’ha raccolta la chiesa africana, ordinandolo sacerdote a 58 anni. Il seminario l’aveva frequentato “da privatista” a Piacenza. L’ordinazione avvenne al palasport di Varese il 15 settembre del 1984, spalti gremiti. Don Vittorione incarna una predestinazione alla santità che mi auguro diventi oggetto di approfondimento. Ci vogliono i miracoli? L’ambasciatrice ugandese in Italia dice, in una pagina del libro, che per il suo popolo Don Vittorione è già santo.

Oggi sarebbe partito per l’Ucraina?
Se gliel’avessero concesso, sì. In Uganda gli spararono, lo sequestrarono, umiliarono la gente che lui aiutava, uccisero donne e bambini nei villaggi tra un colpo di stato e l’altro ai tempi dei feroci e avidi dittatori Amin e Obote. La domanda però è un’altra: dove eravamo noi europei quando laggiù soldataglie accecavano i prigionieri prima di rinchiuderli nei lager e tagliavano le pance alle partorienti gettando per strada le loro creature? Qualcuno sentì parlare di sanzioni? Papa Francesco in una intervista televisiva il Venerdì Santo del 2022 ha detto quello che tutti pensano: un po’ razzisti siamo, questo è brutto.

Come ha ottenuto dal Papa la breve prefazione del libro?
Scrivendogli a Casa Santa Marta. Dopo qualche tempo, mi chiesero il testo e poi arrivò lo scritto con firma autografa, piccolissima. C’è questa frase: auguro ai lettori di questo libro di lasciarsi ferire dalla testimonianza di Don Vittorione. Grazie Santo Padre. 



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